lunanuvola blog di maria di rienzo
(SU GOOGLE, SCRIVERE SOLO LUNANUVOLA BLOG)
Eden
Postato in La femme-nist fatale, Mondopoli (giochiamo a), contrassegnato da tag attivismo, cinema, corea, diritti umani, donne, femminismo, prostituzione, sessismo, stati uniti, traffico di esseri umani, violenza il giorno 28 aprile 2013 |
“La fotografia del suo sorriso ha memoria di una vita che lei aveva. La data in cui fu presa segna l’ultimo ricordo del suo spirito danzante. Oltre quel punto, uno può solo immaginare: ma tu ti fermi a chiederti se lei sta ancora invocando aiuto? Tu guardi, poi te ne vai via. Ti scusi dicendo: “Non è mia”. Non fare nulla ti rende parte del problema, NON della soluzione.” Chong N. Kim, commentando l’indifferenza delle persone davanti ai poster delle ragazze e delle bambine scomparse.
Ammanettata per mesi alla maniglia di una porta dall’uomo che lei pensava essere il suo fidanzato. Poi consegnata ai trafficanti e trasferita a Las Vegas. Tenuta prigioniera là in un magazzino abbandonato e forzata alla prostituzione. Spostata avanti e indietro in diverse città con il medesimo scopo. Questa è la vita che Chong Kim ha fatto dal 1995 al 1997, quando riuscì a fuggire. “Donne e bambine sono rese schiave per soddisfare i desideri dei clienti e dei consumatori di pornografia. Non ha a che fare con il sesso, se non come mezzo: è un grottesco bisogno di potere e controllo.”, dice Chong Kim, oggi attivista contro la violenza di genere ed il traffico di esseri umani, scrittrice e madre.
Chong arrivò negli Usa dalla Corea del Sud all’età di due anni assieme al padre, la madre li seguì poco dopo. Un ambiente familiare violento, nonché molestie e discriminazioni a scuola, avevano già chiesto un prezzo alto alla sua giovane esistenza, quando a 18 anni decise di tagliare i ponti e di andare a vivere con un’amica. “Frequentavo il college, presi un diploma in “Criminologia”. Il secondo anno un uomo cominciò a corteggiarmi, assicurando di amarmi e di avermi cara. Io non avevo nessuna esperienza, e un’autostima così bassa che non mi accorsi dei segnali d’allarme nel suo comportamento. Mi convinse a passare un weekend con lui e diventai il suo ostaggio in una casa abbandonata. Mentre ero prigioniera distrusse la mia tessera della social security, i documenti che attestavano la mia naturalizzazione, la mia patente e qualsiasi altra cosa potesse comprovare la mia identità. Mi disse che senza quelle carte sarei stata trattata come un’immigrata, ed aveva ragione.” Per due anni e mezzo Chong appartiene ai trafficanti, tenta più volte di scappare e subisce violenze di ogni tipo, testimonia i pestaggi, gli stupri e gli omicidi di giovani donne nella sua medesima situazione. Quando riesce a fuggire definitivamente continuerà a spostarsi ogni pochi mesi in luoghi diversi, nel timore di essere di nuovo catturata.
“Quando guardo indietro, a me stessa nel passato, io capivo benissimo che l’abuso mi aveva cambiata. Alla fine devi riuscire ad accettare che non puoi cambiare quel che ti è accaduto, ma il più grande dono che puoi fare a te stessa e alle altre è il vero significato del termine “sopravvivenza”. Io non me ne resto seduta a rammaricarmi di come la mia vita avrebbe potuto essere diversa, perché allora mi starei rammaricando anche di quel che faccio ora. Ho attraversato terapie psicologiche e terapie di gruppo, mantenendo però io stessa il controllo dei miei problemi e dicendo ai miei consiglieri che volevo guarire, non volevo intossicare il mio corpo con medicinali. Uso la meditazione, la musica, la poesia e la danza per andare attraverso il mio dolore e la mia pena. Mi conferisco potere cantando, avendo relazioni con persone positive, investendo tempo ed energia nel rapporto con i miei figli. Gli abusi possono aver posseduto il mio corpo e i miei ricordi, ma non si sono presi la mia anima, la mia dignità, perché io rifiuto di dare ai miei persecutori ciò su cui avrò sempre potere, il mio spirito. Adesso giro il mondo per offrire seminari e organizzare gruppi di auto-aiuto per le sopravvissute che stanno ancora soffrendo. Spesso in queste occasioni mi chiedono: Hai paura di chi ha abusato di te? E io rispondo: No, sono arrabbiata e sto reclamando la mia vita e lo faccio con la mia propria voce.”
Di recente, Chong N. Kim ha contribuito a scrivere la sceneggiatura del film EDEN, ispirato alla sua storia. Il solo trailer è magnifico: ti toglie il respiro, ti torce il cuore e ti fa spalancare gli occhi. Incrocio le dita e spero di vederlo in Italia. Penso che alla fine potrei davvero mettermi a cantare con Chong, che sia benedetta. Maria G. Di Rienzo
Cristina
Postato in La femme-nist fatale, contrassegnato da tag brasile, diritti umani, donne, femminismo, italia, sessismo, traffico di esseri umani, violenza il giorno 4 febbraio 2013 |
In Brasile, 75.000 donne ogni anno sono trafficate a scopo sessuale. La maggioranza di esse, ci dice PESTRAF (Pesquisa sobre o Tráfico de Mulheres, Crianças e Adolescentes para Fins de Exploração Sexual Comercial no Brasil), un’organizzazione anti-traffico di esseri umani, è di discendenza africana, fra i 15 e i 30 anni, povera, senza lavoro e con figli. Inoltre, quasi tutte queste donne hanno già subito violenza in casa e/o fuori.
Di recente, in un programma televisivo brasiliano, una donna che è riuscita a fuggire dai trafficanti ha raccontato la sua storia. A mia volta io la racconto a voi non perché abbia qualcosa di speciale (tutti i passaggi sono tristemente noti), ma perché “Cristina” (non il suo vero nome) ha vissuto per otto mesi da schiava sessuale a Roma, Italia. E perché l’uomo che lei ha denunciato alle autorità del nostro paese, quello che l’ha portata in Italia, è a piede libero.
Cristina aveva 29 anni quando lo conobbe. Lo incontrò nei pressi della scuola dove faceva un corso per infermiera: l’uomo le offrì un lavoro come badante della propria madre e nel contempo la possibilità di studiare psicologia, che era il grande desiderio della giovane donna. A Roma, Cristina scoprì che il suo lavoro era quello della prostituta. Veniva portata in differenti “case private” e stava in fila con altre donne trafficate presso una parete con un buco: gli uomini davano un’occhiata attraverso questa apertura e sceglievano la donna che preferivano. Alle schiave non era permesso vederli prima di essere state scelte.
Se le donne si ribellavano o si lamentavano, venivano messe alla gogna con una specie di ghigliottina attorno al collo, oppure ammanettate per lunghi periodi. Altri castighi comprendevano il digiuno e l’impossibilità di lavarsi. Cristina dice che il suo gruppo era composto da circa 200 donne e che lei ne ha viste morire alcune. Quando altri uomini della banda seppero che Cristina aveva studiato da infermiera, la costrinsero a fare iniezioni di droga alle altre donne, sempre con la stessa siringa: “Nessuno aveva controllato se c’erano persone sieropositive. E mi costringevano ad usare una sola siringa! Credo che quello sia stato il momento peggiore della mia vita da schiava. E’ stato il momento in cui volevo morire.”
Dopo otto mesi di orrore, la giovane donna scoprì di essere stata venduta di nuovo: sarebbe andata a fare la schiava sessuale negli Stati Uniti. Tentò di scappare una prima volta e fu ripresa. La seconda le andò meglio. Dopo una notte di “lavoro” uno dei suoi trafficanti la portò con sé in un appartamento: “Era completamente ubriaco, così ho osato aprire la sua borsa, la borsa che si portava sempre dietro. Ho trovato chiavi, fotografie, documenti. Ho preso tutto e sono scappata. Ho cercato rifugio in una chiesa, dove ho parlato con il prete. Costui ed una coppia italiana mi hanno aiutata facendomi passare per posti diversi, sino all’Ambasciata del mio paese, ed è così che ho potuto tornare in Brasile. Oggi non ho più paura di niente. Posso andare in tribunale a testimoniare in qualsiasi momento.”
Il suo adescatore, che come detto lei ha denunciato in Italia, era stato arrestato ma, non si sa per quale motivo, è stato rilasciato quasi subito. Il governo brasiliano non ne conosce le ragioni e ha chiesto maggiori informazioni al nostro. Che sicuramente, con le elezioni in vista, troverà difficile occuparsi di simili banalità. Quante altre “Cristine” stiano in fila in questo momento in “case private”, dopotutto, non è cosa che commuova o sposti masse di votanti. A meno di non inserire un buono-coito fra le promesse elettorali: così che gli amati elettori, anche i più sfortunati, possano comprare tutte le “Cristine” necessarie alle loro seratine informali e continuare a sentirsi “liberi e onesti”… be’, onesti… diciamo più liberi delle belle fanciulle che i meritori trafficanti offrono al loro sollazzo. Maria G. Di Rienzo
So quanti sono
Postato in La femme-nist fatale, contrassegnato da tag adolescenti, attivismo, bambini, diritti umani, donne, femminismo, sessismo, traffico di esseri umani, violenza il giorno 30 gennaio 2013 |
Facciamo un po’ di conti. Nel 2010, l’industria del traffico a scopo di sfruttamento sessuale ha generato profitti per oltre 39 miliardi di dollari. Ogni schiava ha prodotto un guadagno medio di 29.000 dollari (andando dai circa 11.000 di una schiava al “lavoro” in Asia agli oltre 130.000 di una schiava nell’America del Nord o in Europa). Considerando che il costo della schiava va da poche centinaia di dollari ad un massimo di circa 8.000 (con una media di 1.900) il ritorno dell’investimento è straordinario, non credete? Il traffico di esseri umani è in questo momento al secondo posto nella classifica dei crimini più redditizi, mentre il traffico di stupefacenti è al primo.
L’età media della schiava sessuale, nel mondo, è 11 anni; le più piccole ne hanno 4/5. I trafficanti cercano bambine sempre più giovani perché sono più facili da maneggiare e manipolare. Le bambine presenti sul mercato dello sfruttamento sessuale sono un milione e duecentomila; ogni anno, un milione di bambine/i in più è ridotto in schiavitù. Una volta che sia entrata nel mercato, la bambina schiava sessuale ha un’aspettativa di vita di sette anni (20/30/40 stupri a notte, accoppiati alle botte, alla malnutrizione ed eventuali malattie veneree, hanno un prezzo). Spesso gli stupri di questa bambina sono filmati per diventare pornografia in vendita, essere condivisi con gli amici o usati per “addestrare” altre bambine schiave: purtroppo, i liberi pensatori che consumano pornografia non sono in grado di distinguere fra una bambina/donna trafficata, una sex worker di professione o una porno star. La realtà è che la maggioranza delle femmine coinvolte nella pornografia non sta facendo quel che fa perché era il sogno della sua vita, ma perché è stata trafficata. Dubito che ai liberi pensatori servirà saperlo, ma tant’è. (I dati vengono da Unicef, Nazioni Unite, Stop the Traffic, Born2Fly Project, Don’t sell bodies e altre ong)
“Pensavo di aver visto tutto.”, racconta Diana Scimone, fondatrice di Born2Fly Project, “Avevo viaggiato in circa quaranta diversi paesi, come giornalista, per scrivere di abusi dei diritti umani. Ma un sabato a Mumbai, in India, quel che vidi mi cambiò per sempre. Era la primavera del 2001 e stavo facendo un servizio sulle donne forzate alla prostituzione. Assieme al mio contatto stavo attraversando il distretto a luci rosse nel tardo pomeriggio. “Vedi quelle gabbie dalle finestre del secondo piano?”, mi chiese. “Gabbie? A cosa servono?”, replicai io, pur certa che non mi sarebbe piaciuto saperlo. E in effetti il mio stomaco cominciò a rivoltarsi quando me lo spiegò. Le gabbie servono per le bambine trafficate in India dal Nepal. Alcune non hanno più di quattro anni. Mentre sono nelle gabbie i loro catturatori orinano loro addosso, le torturano e le stuprano, sino a che non mostrano più alcun accenno a ribellarsi. Solo allora sono pronte per entrare nell’enorme industria dello sfruttamento sessuale, perché i trafficanti sono certi che non tenteranno di scappare. Quello fu il giorno che cambiò la mia vita.”
No, non è un orrore che accade in paesi lontani ed esotici. I rapporti internazionali sono chiari: questi orrori accadono dappertutto, in paesi “sviluppati” e “non sviluppati”, in Canada e negli Stati Uniti come in Europa. Ma forse è un orrore limitato a uomini “malati” o “con problemi”, di solito, no?: moltiplicate un milione e duecentomila bambine schiave sessuali per il tasso minimo di 20 stupri a notte. Aggiungete i fruitori “malati” o “con problemi” dei video (ultimamente nell’Europa dell’est si sono usate le bambine degli orfanatrofi, 10enni e 12enni, per farne qualcuno di veramente straordinario), quanti potranno essere? E se aggiungessimo alla schiera dei problematici-che-vanno-curati, o compresi, scusati, razionalizzati, i compratori di piccole domestiche (nella maggioranza dei casi queste bambine/adolescenti servono anche ad allentare le comprensibili e naturali tensioni sessuali del padrone di casa) o i compratori di “spose” 13enni, per lo più orientali, online? Eh già, è difficile quantificare. Ma vi confiderò un segreto: io so quanti sono. Troppi. Maria G. Di Rienzo
Una nuova canzone
Postato in La femme-nist fatale, Mondopoli (giochiamo a), contrassegnato da tag adolescenti, attivismo, bambini, diritti umani, donne, economia, femminismo, giovani, immagine del corpo, sessismo, solidarietà, stati uniti, storia delle donne, traffico di esseri umani, vietnam, violenza il giorno 6 gennaio 2013 |
L’età delle bambine vendute e trafficate a scopo sessuale diventa sempre più bassa, il loro numero sempre più alto. Degli attuali 21 milioni di persone costrette al lavoro forzato – e cioè che per coercizione o inganno svolgono un lavoro che non possono lasciare – 4 milioni e mezzo sono bambine e donne vittime di sfruttamento sessuale. (Agenzia Donne NU, ILO-International Labour Organization).
In India, l’età media delle prostitute nei distretti “a luce rossa” va dai 9 ai 13 anni. (Apne Aap Women Worldwide)
Circa metà delle violenze sessuali in tutto il mondo sono dirette a femmine minori di 15 anni: quindi, si abusa di circa 6.000 bambine al giorno. (Unicef, Right to Education Project)
Una delle ragioni avanzate da vari commentatori per spiegare questi dati è “l’effetto della crisi economica nei paesi poveri”. Sicuramente la miseria gioca un ruolo importante in tali faccende. Ma la vicenda di Minh Dang, statunitense di origine vietnamita, suggerisce che le cause principali sono davvero altre e che molto di quel che c’è scritto all’inizio di questo articolo accade nelle nostre case o in quelle a noi vicine.
Minh Dang, oggi 28enne, è un’attivista contro il traffico di esseri umani dell’ong “Don’t sell bodies” (“Non vendete corpi umani”). Suo padre ha cominciato ad abusare di lei quando di anni ne aveva tre. Quando ne ebbe dieci, fu portata a “lavorare” in un bordello: dove, se non doveva andare a scuola, poteva essere lasciata per settimane intere. Allevata nel culto di dover servire i suoi genitori, per lungo tempo Minh ha pensato che la prostituzione fosse uno dei suoi compiti. “Mia madre metteva annunci in vietnamita su giornali e riviste. Mio padre mi portava in quelli che erano caffè di facciata e bordelli nel retro. Non ero l’unica bambina ad essere venduta, in quei posti.”
I genitori di Minh Dang non erano miserabili, ma grazie alla continua vendita della figlia se la sono passata ancor meglio, e la madre ha aperto un salone per la cura delle unghie. Più che la povertà, qui hanno lavorato attitudini patriarcali, sessismo, avidità e insensibilità.
Minh era una studentessa eccellente e manteneva il segreto in modo quasi perfetto: “Due delle mie insegnanti, alle medie, si accorsero in momenti diversi che c’era qualcosa che non andava. Ma non riuscirono a collegare questo “qualcosa” allo sfruttamento sessuale, perché io ero diversa dallo stereotipo della ragazzina abusata.” Quando ebbe 18 anni, e veniva ancora venduta regolarmente, Minh tagliò di netto ogni contatto con i suoi genitori: “Dissi loro che se mi avessero contattata ancora avrei chiamato la polizia.”
Ma restava un mucchio di lavoro da fare, come Minh ricorda, per sentirsi di nuovo umana. “Quando mi prostituivano, mi trattavano come un animale in gabbia allo zoo: i miei movimenti erano limitati e controllati, l’ambiente mi era estraneo, ed ero isolata dalle altre della mia specie. Ero una creatura esotica che la gente poteva guardare e toccare se pagava i miei proprietari, se pagava per avere il privilegio di usare il mio corpo per divertirsi. C’è anche un’altra metafora che mi viene sempre in mente: per lungo tempo ho pensato di essere un’aliena. Ero solo somigliante ad un essere umano. Gli occhi, le braccia, le gambe, la forma del corpo… era tutto simile, ma io non vivevo come un essere umano, non pensavo come un essere umano.
La maggior parte del mio lavoro di guarigione è consistita nel riconnettermi alla mia umanità e all’umanità altrui. Ho dovuto imparare o re-imparare che ero umana, lo ero sempre stata, e che quelli attorno a me, persino quelli che mi hanno ferito in modo così profondo, erano pure umani. Quando avete a che fare con le sopravvissute all’abuso sessuale, che sono state trattate come oggetti, dovete ricordare che sulla loro umanità si è, al minimo, sputato. Dovete ricordare che la relazione base di queste persone con “chi” loro sono e con quello che possono aspettarsi dagli altri, e con ciò che è possibile in questo mondo è stata danneggiata. Per cui, assicuratevi di trattarle da esseri umani. Non separatevi da loro. Quando ascoltate le loro storie non pensate, ad esempio: “Quel che ho passato io è niente, al confronto. I miei traumi sono minori.” Ciò non vi aiuta a vedere la nostra comune umanità. Trovate le vostre personali esperienze con la disumanizzazione ed esaminatele: in questo modo svilupperete quell’empatia che vi sosterrà e vi renderà quindi capaci di sostenere le vittime.
Come amate voi stessi/e? Io non ho bisogno mi amiate in modo differente. Io come sopravvissuta non sono diversa da voi. Voi non siete diversi/e da me. Trovate una via per connettervi alle sopravvissute: non c’è necessità di aver fatto esperienza delle medesime cose per immaginare cos’hanno provato. Voi potete connettervi a me anche se non capite. La maggioranza delle persone che sopravvive allo sfruttamento sessuale non si aspetta che lo facciate: desiderano in primo luogo che le trattiate come esseri umani. E un’ultima cosa: “sopravvissute” non è un titolo che definisce interamente ciò che una persona è. Le sopravvissute hanno interessi e abilità, colori preferiti e animaletti da compagnia, speranze e sogni, sofferenze e rimpianti. Proprio come ciascuno/a di voi, sono persone complesse e sfaccettate.”
Minh ha usato un’altra similitudine per descrivere il suo cammino di guarigione. Dice che è stato come imparare una “nuova canzone”, con un testo diverso che rimpiazzasse la “vecchia canzone”, quella che aveva sentito sino alla nausea durante 15 anni di violenze sessuali: “Il mio nuovo testo parla di libertà, di speranza e di amore.” Maria G. Di Rienzo
Il prezzo del sesso
Postato in Mondopoli (giochiamo a), contrassegnato da tag bulgaria, cinema, diritti dei lavoratori, diritti umani, donne, femminismo, giornalismo, migranti, sessismo, storia delle donne, traffico di esseri umani, turchia, violenza il giorno 4 ottobre 2012 |
(Intervista a Mimi Chakarova, di Bryan Shih per Women in the World Foundation, 2 ottobre 2012, trad. Maria G. Di Rienzo)
Nel 1990, quando aveva 13 anni, Mimi Chakarova emigrò con la madre dalla Bulgaria agli Stati Uniti in cerca di una nuova vita. Quando si recò in visita al suo paese, due anni più tardi, scoprì che molte delle sue coetanee erano pure emigrate con lo scopo di trovare un lavoro e sostenere economicamente le loro famiglie impoverite. Di parecchie non si sapeva più nulla. Mimi pensò allora che era molto strano non mantenessero il contatto con i propri parenti, quando erano di sicuro spaesate in quelle terre straniere, ma genitori e nonni le dicevano che davvero non sapevano dove fossero le loro figlie e nipoti.
Passarono altri anni e nella seconda metà dei ’90 l’attenzione di Mimi fu attratta dai servizi giornalistici sulla crescente industria del sesso che si diffondeva dall’Europa dell’est. I suoi pensieri tornarono in Bulgaria, alle ragazze che aveva conosciuto mentre cresceva. Era possibile che ad alcune di loro fosse accaduto proprio quello che i servizi riportavano? Ormai una fotogiornalista con esperienza di zone di conflitto, Mimi pensò che la questione meritava ulteriori indagini. Il contenuto salace di quei pezzi, spesso scritti in tono voyeuristico da giornalisti maschi che fingevano di essere clienti, la disturbava: “Mi dissi che invece di star là a leggere e lamentarmi e scuotere la testa, dovevo provare ad andare più in profondità.” E così fece, lavorando per quasi dieci anni al suo progetto di giornalismo investigativo e producendo tra l’altro un documentario che ha già vinto dei premi, “Il prezzo del sesso”.
Il titolo del tuo progetto, “Il prezzo del sesso”, è semplice ma efficace. Perché lo hai scelto, cosa significa per te?
Nel 2006 stavo lavorando ad una storia per Frontline World sul traffico di esseri umani a Dubai. Incontrai i produttori per chiarire alcuni dettagli e loro mi dissero: “Allora, come si chiamerà il tuo servizio?” Io non avevo ancora scelto un titolo e loro continuarono: “Be’, comunque lo chiami assicurati di metterci dentro la parola sesso.” Mentre ero alla guida dell’auto per tornare a casa mi ripetevo: “E’ disgustoso. Non posso crederci.” Ma questo mi ha costretta a riflettere su una cosa che ha molteplici significati. Per esempio, qual è il prezzo del sesso? Il prezzo del sesso è ciò che un bel po’ di queste donne hanno pagato. E’ la degradazione del loro spirito. Questo è il prezzo che hanno pagato per essere vendute.
Il tuo progetto multimediale fornisce molte risorse per comprendere la questione del traffico di esseri umani, ma che impatto ha avuto il filmato sulle sue protagoniste?
Le ragazze che appaiono nel film non hanno accesso ad internet. Devi capire le condizioni in cui vivono. Non è che possono accendere un portatile e andare a vedere. Ma una di loro, Jenea, aveva bisogno urgente di serie cure mediche: molti di quelli che hanno visto la sua storia nel documentario hanno mandato donazioni e Jenea ha potuto affrontare l’intervento chirurgico. Per cui anche se non conoscono il prodotto finito sono consapevoli che c’è un ritorno dall’aver raccontato le proprie storie.
Non abbiamo chiuso il film su una nota ottimistica o speranzosa, anche se avremmo potuto, perché sarebbe stata in gran parte falsa: non avrebbe mostrato le altre donne in situazioni simili le cui storie non sono udite. Gran parte di loro non sopravvivono. Non possono raccontare le loro vicende. Nello strutturare un messaggio indirizzato alla comunità globale io penso si debba avere un tono realistico. E questa è stata la critica principale fatta al film, e cioè che si tratta di un documentario davvero “pesante”. E lo è per via della materia che tratta: le vite delle persone sono distrutte e non è semplice rimetterle insieme dopo che sono state spezzate tante volte.
Una delle critiche in generale ai servizi sul traffico a scopo sessuale è che distolgono l’attenzione da altri traffici di esseri umani, per esempio il traffico di lavoratori, solo perché trattano di sesso. Tu cosa ne dici?
Io penso sia vero, penso che il traffico di lavoratori esista su una scala enormemente più grande. Ma penso anche che questo tipo di traffico è molto più difficile da documentare perché è letteralmente dappertutto: fabbriche, campi, case. Accade con le domestiche, che spesso sperimentano pure abusi sessuali. So bene che il traffico di lavoratori ha definitivamente bisogno di maggior copertura giornalistica, ma ognuno sceglie le proprie battaglie.
La gente mi ha anche chiesto: “Perché non sei andata in altri luoghi, perché ti sei concentrata sull’Europa dell’est, la Turchia e Dubai?” Perché avevo connessioni e contatti in questi luoghi. Dopo la caduta del comunismo le cose sono cambiate drammaticamente. Girare il documentario mi ha dato l’opportunità di indagare qualcosa che mi interessa, che credo dovrebbe far riflettere tutti, e cioè i sistemi sociali. Cosa accade quando un sistema sociale collassa? Che ne è delle questioni di genere? Come ci trattiamo l’un l’altro? Come sono trattate le donne? Nell’Europa dell’est e nei Balcani le società sono assai patriarcali, e allora in che modi le ragazze sono trattate diversamente dai ragazzi? Perché questi genitori non stanno facendo domande sulle loro figlie scomparse, perché non fanno le domande che farebbero se a scomparire fossero stati i loro figli maschi? Tutto questo, genere, opportunità economiche, sistemi sociali, che degradano e si dissolvono, è molto più interessante da indagare, per me.
Dopo dieci anni di lavoro sul traffico a scopo sessuale quanto pensi di occupartene ancora? Come ti ha toccato personalmente?
Sicuramente non farò questo per il resto della mia vita. E’ qualcosa che ti cambia. Che ti si attacca addosso. Le mie colleghe che hanno passato solo due settimane a leggere e far ricerche ogni giorno sul traffico di esseri umani e sullo stupro mi hanno detto che avevano gli incubi e che la cosa le stava angustiando troppo. Adesso tu moltiplica questo per dieci anni, e non si tratta solo di leggere ma di parlare con le persone e di andare in certi posti. Finisci per sviluppare il terrore che qualcosa di terribile ti accadrà, perché incontri costantemente persone a cui cose terribili sono già accadute. Ti investe ad un livello assai profondo. Per cui, se dovessi continuare a lavorare solo in quest’area non so quanto bene potrei fare alle persone o al mio stesso lavoro.
Mi piacerebbe espandere le ricerche, aggiungere gli altri due elementi sovrani del profitto, le armi e le droghe, e chiudere il triangolo. I giocatori chiave di tutte e tre le partite sono gli stessi: i paesi che beneficiano maggiormente del traffico di armi e droghe sono gli stessi che trafficano donne, le reti criminali sono le stesse.
Come trovi bilanciamento nella tua vita, cosa ti sostiene?
Mi piacerebbe davvero saper meditare. Ho colleghi e colleghe che maneggiano soggetti difficili e so che lo yoga e la meditazione li aiutano molto. Io maneggio la mia rabbia, la mia frustrazione e la mia ansia facendo pugilato.
Ho cominciato ad allenarmi perché volevo avere la forza di andare in posti non sicuri durante il mio lavoro da reporter. Sapevo che se accadeva qualcosa niente poteva tirarmene fuori, perché non ho protezioni e nessuna squadra alle spalle, per cui avevo bisogno di sentirmi forte, in grado di entrare in situazioni difficili ed uscirne bene. Faccio boxe da sei anni, anche eccessivamente. Il mio rilassarmi è un processo in cui rendo esausti corpo e mente, proprio l’opposto della meditazione e dello yoga, ma sembra che per me funzioni.
http://www.mclight.com/slideshow.html
Ndt: All’indirizzo riportato sopra potete vedere lo slideshow del documentario, che si apre con queste parole: “Quando ero piccola, mia madre mi disse che quando piove e contemporaneamente esce il sole una prostituta partorisce. Il sole è il bambino, le gocce di pioggia sono le lacrime della madre. – Rima”
Restavèk
Postato in Mondopoli (giochiamo a), contrassegnato da tag adolescenti, attivismo, bambini, diritti umani, donne, haiti, schiavitù, solidarietà, traffico di esseri umani, violenza il giorno 22 giugno 2012 |
Attualmente vi sono circa 27 milioni di schiavi, nel mondo, la cifra più alta della storia umana (sì, sono di più persino rispetto al periodo in cui gli africani sono stati trafficati in Europa). Qualche anno orsono (2008) un giornalista decise di fare da sé la prova: era vero che si poteva comprare bambini con facilità assurda? Così si imbarcò su un volo per Haiti e per avere una bimba di 10 anni ci mise 150 dollari di denaro e dieci ore di tempo. Haiti è la sede di una forma di schiavitù che nasce dalla disperazione a livello economico. Non riuscendo a dar da mangiare ai propri figli, i genitori li danno ad altre famiglie, sperando che esse offriranno ai piccoli più di quanto loro possano. Ma nelle nuove famiglie i bambini sono schiavi, o restavèk (letteralmente “stare-con”), lavorano come domestici dall’alba al tramonto, non vanno a scuola e non vengono nutriti adeguatamente, e troppo spesso si abusa di loro a botte o stupri. I restavèk haitiani sono circa 300.000: la maggioranza sono bambine e a volte non hanno più di quattro o cinque anni. Quella che segue è la storia di una di loro, Helia Lajeunesse.
Maria G. Di Rienzo
Mia madre morì quando avevo sette mesi, così fu mia nonna a prendersi cura di me, ma morì anche lei quando avevo cinque anni. I miei parenti non avevano i mezzi per mantenermi e mi diedero via come restavèk. In quella famiglia io ero la prima ad alzarmi e l’ultima ad andare a dormire. Qualsiasi lavoro ci fosse da fare, dovevo farlo io. Alle 4 mi alzavo per accendere il fuoco e cucinare il cibo, ma non mangiavo nulla di quel che cucinavo, ai miei pasti dovevo provvedere da me elemosinando per strada. Andavo a prendere l’acqua e la portavo per chilometri sulla testa venendo giù dalla montagna. Sulla testa portavo anche il cibo alla loro figlia, a scuola. Loro mi picchiavano spesso sulla testa.
Un giorno, tornando dalla commissione per la figlia, vidi una nuova capanna di paglia lungo la strada, e là c’era un uomo che insegnava gratuitamente ai bambini. “Vieni anche tu.”, mi disse. E io risposi: “Non posso, la zia (termine usuale per indicare la padrona) mi picchierà se lo faccio.” L’uomo insisteva, così andai. Arrivata a casa dissi: “C’era un uomo che insegnava, sono andata a imparare anch’io.” E la zia disse: “Cosa? Sei andata a scuola?” Io risposi: “Sì, e potrei avere una piccola matita e un blocco note, per favore?” Lei mi picchiò tanto che non tornai più alla capanna. Non ho imparato a leggere e scrivere sino a che non sono diventata adulta.
Quando avevo nove anni la figlia si fece male a scuola, cadendo, e si ferì ad un ginocchio. Io dissi a sua madre cos’era accaduto, e lei chiamò la polizia. Passai tutto il giorno nella prigione della stazione di polizia. I vicini di casa però continuavano a dire alla zia: “Perché fai questo? Tua figlia è semplicemente caduta. Non dovresti rovinare quella bambina.” Così venne a liberarmi. Sono scappata tre volte, da bambina, e per due volte ho cambiato padroni, ma le mie condizioni non sono migliorate. Ero sempre meno di un animale, per loro.
Fu un giovanotto a portarmi via, una brava persona, l’uomo che ho sposato. Mi portò a Port-au-Prince dove avevamo una piccola stanza in cui stare insieme. Ma poi arrivarono i bambini, cinque, ed eravamo molto poveri. Nel 2004 una banda di delinquenti fece irruzione in casa nostra. Stuprarono me e la mia figlia più grande. Mio marito tentò di difenderci e loro lo portarono via. Non so che fine abbia fatto. Non l’abbiamo più visto da allora, crediamo che lo abbiano ucciso. Mia figlia restò incinta a causa dello stupro, così alla fine dovevo provvedere da sola a cinque figli e al nipote. Non ce l’ho fatta. Ho dato via come restavèk quattro di loro, anche se la più piccola aveva solo tre anni. Ho tenuto l’ultimo nato, perché allora non aveva neppure un anno. Non sono ancora riuscita a riaverli tutti con me. Un figlio e una figlia non vogliono vivere con me perché uno degli assassini del loro padre risiede tranquillamente nel mio stesso quartiere e loro hanno paura che cercherà di ucciderli se li vede. Ed ho una figlia, oggi diciottenne, che è ancora restavèk. Il cuore mi si spezza ogni volta in cui penso a lei. So che non la trattano bene. So che non è mai andata a scuola.
E’ stato in uno di questi momenti di disperazione che ho incontrato KOFAVIV (Commissione delle donne – Vittime per le Vittime). E’ un gruppo composto da donne che sono state violentate e che erano restavèk. Mi hanno sostenuta, mi hanno abbracciata e non mi hanno più lasciata andare. Grazie a loro ho ottenuto assistenza medica e psicologica. Grazie a loro ho capito che non potevo arrendermi, che non era tutto finito.
Per la mia intera vita mi sono detta: “Le cose cambieranno, devono pur cambiare.” Oggi ci aggiungo anche: “La schiavitù deve finire, deve essere fuorilegge, e io devo riportare a casa tutti i miei figli.” Faccio un mucchio di cose con KOFAVIV. Lavoriamo con le vittime per aiutarle a ricostruirsi una vita. Cerchiamo di aiutare i bambini restavèk affinché non si lascino andare. Abbiamo aperto una scuola a Martissant dove i bimbi che non hanno padre o madre, o che sono cresciuti come schiavi, possono studiare. Addestriamo i più grandi con corsi professionali.
Un’altra cosa che facciamo è cercare di aumentare il livello di consapevolezza di chi ha bambini restavèk in casa (ma spesso, ve lo dico io, chi maltratta i bambini schiavi maltratta anche i propri). Creiamo un’atmosfera rilassata, raccontiamo storie buffe, improvvisiamo del teatro… tutto per aiutarli a capire questo: la bambina o il bambino che ti sei portato in casa è un essere umano. Andiamo a parlare anche con le famiglie povere, a spiegare che non faranno un favore ai loro figli dandoli via come schiavi. Cerchiamo di aiutarli a tenere i loro bambini. E diciamo ai vicini di casa che hanno delle responsabilità: “Se sapete che una famiglia sta abusando di un bambino,” diciamo loro, “bussate alla porta e parlate con quelle persone. Dite loro di non picchiarlo. Dite loro che è un essere umano e che devono trattarlo da tale. E se dopo due o tre volte non capiscono, allora andate a parlarne con la polizia.”
Abbiamo tenuto una marcia contro la schiavitù a Port-au-Prince e sono venute migliaia di persone. Portavamo delle magliette con su scritto: “Io sono contraria al sistema restavèk. E tu, cosa stai aspettando?” Stiamo vedendo grandi risposte al nostro lavoro. Non voglio dire che al 100% tutti ora siano consapevoli di quanto sbagliata sia la schiavitù, ma almeno il modo in cui trattano i bambini cambia. Per esempio, c’era questa zia che picchiava la piccola restavék a sangue. L’abbiamo incontrata, abbiamo parlato, l’abbiamo invitata alla marcia. E lei è venuta, ha portato il marito e la piccola schiava. La bambina dormiva di solito in cucina, su un pezzo di cartone. Non le hanno ancora dato un letto, ma almeno coperte pulite in cui può avvolgersi. La lasciano andare ogni tanto a casa dai suoi genitori. La mandano a scuola. Noi abbiamo chiesto alla piccola: “Come va con la zia, adesso?” Lei ha risposto: “Non mi picchia più. A volte gioca con me.”
Finirà. E’ una lotta enorme, ma la schiavitù finirà. Come io ho imparato a parlare e a lottare, altre stanno imparando. E anche voi, dall’estero, dateci una mano. Aiutateci con il vostro coraggio e le vostre idee. Aiutateci a restare ferme e forti nei nostri propositi. Helia Lajeunesse (trad. Maria G. Di Rienzo)
Per saperne di più: www.kofaviv.org
Un po’ di vita
Postato in Arte, Mondopoli (giochiamo a), Musica, contrassegnato da tag adolescenti, bambini, diritti umani, donne, femminismo, kamlari, musica, nepal, schiavitù, traffico di esseri umani, violenza il giorno 26 aprile 2012 |
Unica femmina su quattro figli, nepalese del distretto di Bardiya, Suma Thari aveva solo 6 anni quando fu venduta come schiava “temporanea” (kamlari) dai suoi genitori analfabeti. Per i successivi sei anni, Suma ha sofferto la fatica e l’abuso in tre diverse case. Quando ha fatto ritorno a casa propria, dodicenne, non era più in grado di parlare con i membri della sua famiglia, perché mandata lontana ad un’età così tenera aveva dimenticato la lingua natale.
Oggi Suma ha 19 anni e dal 2008 è riuscita a studiare grazie ad un programma dell’ong “Room to Read” ( www.roomtoread.org ). Nel 2014 otterrà la licenza media e vuole specializzarsi come consulente sanitaria per aiutare le ragazze della sua comunità. Lentamente, ha riacquistato la propria lingua e la fiducia in se stessa: “Ho detto a mia madre: tu hai partorito i tuoi figli maschi ed hai partorito me, perché discrimini? Noi figli siamo uguali e meritiamo di avere le stesse opportunità.”
Come parte del suo processo di guarigione, Suma ha scritto una canzone. Potete ascoltarla su
http://www.youtube.com/watch?v=d-PlQUwxPBQ&feature=player_embedded
Di seguito trovate il testo (trad. Maria G. Di Rienzo):
Che egoisti sono stati, mio padre e mia madre
Hanno messo al mondo una figlia
Volevi vedermi soffrire, madre?
Volevi vedermi soffrire, padre?
E allora perché avete messo al mondo una figlia?
I miei fratelli vanno a scuola
Io sono sfortunata, sono schiava nella casa del padrone
La moglie del padrone abusa di me ogni giorno
Un po’ di vita, per essere picchiata ogni giorno
Che egoisti sono stati, mio padre e mia madre
Hanno messo al mondo una figlia
La regina dei banditi
Postato in La femme-nist fatale, Mondopoli (giochiamo a), contrassegnato da tag attivismo, bambini, diritti dei lavoratori, diritti umani, donne, india, lavoro minorile, migranti, nonviolenza, solidarietà, traffico di esseri umani, violenza il giorno 7 aprile 2012 |
C’era una volta (il mese scorso) una piccola città indiana, Kagal, in cui alcuni residenti notarono una persona nuova: era una minuta bambina di 9 anni che si occupava di una mandria di asini. Da lei vennero a sapere che suo padre, alcolizzato, l’aveva venduta al proprietario di una delle locali fabbrichette di mattoni. La bimba era spaventata ed evidentemente maltrattata. I paesani si chiesero l’un l’altro cosa potevano fare e la voce si sparse sino ad arrivare all’orecchio della Regina dei Banditi. Quest’ultima visitò il luogo e parlò con la bambina, Priya Mumtaj. “Mio padre mi ha venduta per 1.200 rupie (circa 20 euro).”, le disse la piccola, “I miei padroni mi fanno soffrire. E sono preoccupata per mio fratello e mia sorella: ho paura che mio padre venda anche loro.”
Vi aspettate che la Regina dei Banditi sguaini una spada e faccia un po’ di giustizia sommaria? Be’ non è andata così. Nonostante il soprannome, Anuradha Bhosale di mestiere fa l’assistente sociale ed è una ferma amica della nonviolenza. Si è quindi rimboccata le maniche e come prima mossa ha ricordato alla polizia le leggi che dovrebbe far rispettare: con l’assistenza delle forze dell’ordine ha quindi soccorso i tre bambini (gli altri due erano stati mandati dal padre a mendicare per strada) che sono stati riuniti ed affidati al “Comitato per il Benessere del Bambino” di Kolhapur. Essere di nuovo insieme, dicono i piccoli, è la gioia più grande delle loro vite. E per la prima volta tutti e tre frequentano la scuola.
Potreste dirmi: e che c’è di strano? Anuradha sta semplicemente facendo il suo lavoro. Non è proprio così. Molto di quel che usa – regolamenti, rifugi, scuole – la Regina dei Banditi l’ha creato con le proprie mani. Ha fondato la “Campagna per i Diritti delle Donne e dei Bambini”, il cui scopo è soccorrere, istruire e dare potere a donne vedove, divorziate e abbandonate che se non sono autosufficienti possono facilmente mandare i loro bimbi a lavorare invece che a scuola o persino venderne qualcuno. Spesso queste madri neglette sono ancora delle bambine esse stesse e vivono per la maggior parte in zone rurali impoverite. Anuradha non si limita ad istruirle perché trovino un impiego, dà loro la coscienza di avere dei diritti costituzionali e la legittimazione a reclamarli: 52.000 di queste donne e ragazze oggi beneficiano di sussidi governativi di cui non conoscevano l’esistenza e tanto meno di esserne titolari. Non contenta, ha fondato AVANI, un’ong che combatte il traffico e la schiavitù minorile e che in pochi anni ha soccorso 541 bambini trafficati, ha fornito assistenza sanitaria ed istruzione a 5.604 figli di lavoratori migranti, ha costruito scuole nel mezzo dei cantieri di fabbricazione dei mattoni ed ha fornito residenze stabili ai bambini abbandonati.
Quando le avanza del tempo, Anuradha lancia campagne per portare la gente a votare, per i diritti umani, per i diritti dei lavoratori, e così via. Se vi raccontassi tutto quel che la Regina dei Banditi fa, questo articolo diventerebbe un libro. Ma come ha ottenuto il suo soprannome, Anuradha Bhosale? Glielo diede il preside di un liceo di Kolhapur, il dott. Sunilkumar Lavate. Il loro primo incontro non fu proprio felice. Gli studenti del liceo summenzionato, invece di assistere alle lezioni, stavano per strada a fare teatro durante una delle campagne per il voto dell’assistente sociale più effervescente del paese. “Molto seccato, la chiamai per esprimerle il mio disappunto.”, ricorda il dott. Lavate, “Mi rispose candidamente che come educatore ed elettore avevo dei doveri, e che avrebbe apprezzato il mio sostegno alla campagna. E di colpo mi resi conto che aveva ragione. Così, chiusi un occhio sulle assenze e le diedi una mano in modo indiretto.”
Successivamente, tenendo una conferenza, il preside la definì “La Phulan Devi di Kolhapur” e “La Regina dei Banditi dei movimenti sociali”. Erano complimenti, per quanto scherzosi, perché la figura a cui Anuradha Bhosale fu paragonata è oggetto di grande reverenza. Phulan Devi era una semplice donna di villaggio che fu rapita e stuprata da un gruppo di delinquenti: riuscita a sfuggire alle loro grinfie divenne una “bandita” allo scopo di vendicarsi di ciascuno di loro. Dopo averne fatte passare un po’ ai suoi torturatori fu catturata e finì in prigione, ma aveva suscitato nella gente comune tanto rispetto che come ne uscì le chiesero di candidarsi in Parlamento. Phulan Devi fu infatti eletta, ma a metà del suo mandato parlamentare ignoti assalitori la uccisero a colpi d’arma da fuoco a Delhi, sulla soglia di casa sua. Comunque, il soprannome attecchì, ed oggi Anuradha è per tutti “La Regina dei Banditi”. Anche le sue origini sono simili a quelle della sua predecessora. La sua famiglia era “pariah”. Nata nel 1972, Anuradha da bambina non stava meglio della piccola venduta a Kagal che ha soccorso. Lavorava e soffriva. Quando ha ottenuto il suo diploma di assistente sociale a Mumbai era in serie condizioni di denutrizione. E quando, non ancora trentenne, il suo matrimonio – che le aveva dato una figlia ed un figlio – finì (il marito era molto spensierato con altre donne), Anuradha pensò dapprima di essersi illusa, e che la felicità non fosse davvero destinata a lei. Ma è una lottatrice: “Mi ci vollero due anni per vederci meglio. Guardai con più attenzione il mondo attorno a me: era pieno di dolore, di tristezza, di durezze. La mia sofferenza era una goccia nell’oceano che inghiottiva innumerevoli vite, vite che meritavano di meglio. Dovevo affrontare questo con fierezza e coraggio, e creare la mia felicità assieme alla felicità altrui.” Maria G. Di Rienzo