INTERMEZZO dalla MANON LESCAUT DI GIACOMO PUCCINI (LIVE, JAMES LEVINE, METROPOLITAN 2008)
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Luglio ‘ 43 (prima parte)
di NELLO AJELLO
Benito Mussolini
Ventitré luglio 1943. Si vocifera su un’imminente convocazione del Gran Consiglio del Fascismo. Ma pochi italiani sanno di che cosa si tratti. Quell’organo del Regime, che mai ha avuto vita prospera, è ormai un fantasma. Non si riunisce dal dicembre 1939, sei mesi prima dell’entrata in guerra. Tempi migliori degli attuali. Su questi ultimi, la gente è invece avida di notizie e di voci (“Voci littorie” le chiama Paolo Monelli per dimostrarne la rituale provenienza). Ma questa violenta avidità di conoscere i nostri destini è più che giustificata dai fatti recenti, tutti catastrofici. È di ieri appena il bombardamento degli Alleati sulla Capitale. Risale al 10 luglio, due settimane fa, il loro sbarco in Sicilia.Ma la crisi viene più da lontano. Nel novembre scorso l’irruzione degli Alleati in Algeria ha offerto l’immagine plastica dello strapotere americano. Nel giro di pochi mesi, tre armate italiane sono state distrutte. Ad El Alamein. Sul fronte russo. In Tunisia. Intanto Mussolini tace o parla di rado. “Mutolini” così Tullio Kezich, giornalista e cronista, ribattezzerà “quel” Duce, che gli appare un dittatore esangue. Più vitale e meno decorativo del consueto appare invece, ai meglio informati, Vittorio Emanuele III. La sua esigua corte sa che, fin dal 15 maggio, egli confida ai propri diari il proposito di separare l’avvenire dell’Italia da quelli della Germania che “nel suo quinto anno di guerra è stanca e sfiancata”
E loro, i tedeschi, che cosa pensano di noi? Lo rivela un dossier proveniente dalla segreteria particolare del Capo del governo. Si può leggerlo al centro d’ un saggio sulle “carte segrete di Mussolini” a firma di Fabio Andriola, pubblicata nella rivista “Nuova storia contemporanea”, giugno 2003. La caduta della Sicilia – vi si osserva – ha scosso nel profondo l’asse Roma-Berlino. Mussolini e Hitler si scambiano lettere astiose. In una di queste, il Führer offre della situazione italiana un quadro molto aspro. Che cosa, si domanda, “rappresenta la perdita della Sicilia” se non “una base per l’ulteriore attacco contro il continente italiano”? Segue un secco rilievo sul deficiente impegno delle nostre truppe: “Le forze della difesa costiera non hanno nemmeno accettato il combattimento”. Non resta che provvedere, “con la massima energia”, al “potenziamento delle forze germaniche in Italia”, Di fatto, uno “scarso aiuto” da parte delle autorità di Roma ha impedito “di sfruttare integralmente il potenziale dell’aviazione di Berlino”.In conclusione, Hitler prega il Duce di adoperarsi affinché “anche le vostre forze dislocate in Sicilia diano tutto, fino all’ultimo, per la difesa dell’isola”. Quell'”anche” sottintende che gli effettivi tedeschi hanno fatto il proprio dovere. Gli italiani, no. Rispondendogli il 18 luglio, Mussolini ha puntato su un concetto che gli è abituale: la “preponderanza” delle forze nemiche. Ad essa va attribuito “il rapido successo degli sbarchi in taluni settori della Sicilia”. Gli aiuti offerti dalla Germania, “anche se generosi, sono stati insufficienti”. Le autorità italiane, invece, “hanno fatto tutto quanto era possibile per i camerati germanici”. Ormai, per gli anglo-americani, la guerra si avvia a un obiettivo preciso. “Il sacrificio del mio paese”, chiarisce Mussolini, “non può avere per scopo principale che quello di ritardare l’attacco diretto alla Germania”.L’Italia, “entrata in guerra tre anni prima del previsto”, ha bruciato “le sue risorse in Africa, in Russia e Balcania”. In definitiva, un contrattacco puntiglioso ma inconsistente, com’ è lo stato d’ animo del despota in questa fase di declino. Sempre in relazione alla Sicilia spicca – accuratamente registrato – un colloquio fra Mussolini e il generale Alfredo Guzzoni, comandante delle forze di stanza nell’isola. Il generale osserva che la mancanza di rifornimenti, di cui soffre quel fronte, è dovuta anche al fattore-uomo. “I marinai che conducevano i traghetti” hanno abbandonato i posti di lavoro. Se si individuasse il colpevole, andrebbe “fucilato sul posto. La questione è che non sempre si trova. Se la svigna subito”. Spesso il soldato italiano “si veste in borghesee va a casa”. Ma la notizia principale è che i siciliani accolgono con calore gli invasori. A Licata – sintetizza Guzzoni – “fiori e applausi”. A Canicattì, “prima ancora che le nostre truppe sgombrassero, vi erano già delle lenzuola bianche alle finestre”. Molte lenzuola, pochi cannoni.Il 12 luglio, il Feldmaresciallo von Richthofen ha informato l’autorevolissimo Hermann Goering che, nella zona di Augusta, “i militari italiani si sono ritirati dopo aver fatto saltare i loro pezzi”. Un’altra registrazione telefonica. Si parlano due alti ufficiali: il tenente colonnello Klintsh e il colonnello Engelhorn, quest’ ultimo al comando di reparti tedeschi nella nostra penisola. Klintsch: “Qual è lo stato d’ animo degli italiani?” Engelhorn: “Assai basso”. Klintsch: “Ma questi italiani fanno almeno qualche cosa…?”. Engelhorn: “Cose da far vomitare”. Brutale ma espressivo. Altra scena. Al telefono sono ancora una volta due nostri connazionali, il capomanipolo Buratti della milizia portuale di Livorno e il suo superiore al ministero della Marina, il maggiore Conforti. “Quando c’ è l’allarme – racconta Buratti – parte dei militi se ne va in campagna”.
Dopo il 20 luglio, una richiesta arriva da Napoli (difesa costiera) a “Supermarina”, Roma: “Qui abbiamo bisogno di filo spinato. Le nostre opere di difesa non sono circondate da niente. Abbiamo messo i cani da guardia, ma i cani che possono fare?”. Nella capitale, piazza Venezia appare insolitamente deserta, come in attesa. C’ è perfino chi arrischia qualche sorriso. Leo Longanesi ascolta una conversazione fra due personaggi. Il primo: domanda: “Credete che a Roma verranno a bombardarci”? Ecco la risposta: “A Roma no, a Roma c’ è il Papa e poi Roma è troppo bella. Meglio che bombardino Milano”. Conclusione: “L’unità del Paese poggia su questui ideali”. Alla vigilia d’ una prova cruciale, l’Italia del tardo fascismo è anche questo.
Fine della prima parte
(seconda parte)
Iniziata alle cinque del pomeriggio finì alle due e quaranta del mattino. A destra, il duce e Dino Grandi autore dell’ ordine del giorno che esautorò il dittatore.
Sabato 24 luglio, pomeriggio. «Entriamo nella trappola?» Sono le parole che Benito Mussolini bisbiglia varcando il portone di palazzo Venezia. Non è una domanda, è l’ unica certezza che occupi il suo animo incline al peggio.
Sono le 17,15. Il Duce indossa la divisa della milizia. Certe sue affermazioni appaiono scultoree, e molti tratti del discorso sembrano l’ esordio al potere d’ un successore. Di fatto, secondo Grandi, la Corona è stata menomata delle sue prerogative. Per contro, la figura del dittatore appare stanca. I gerarchi del Gran Consiglio si trovano lì già da un quarto d’ ora. Quasi tutti nascondono una pistola. Dino Grandi – del contenuto del cui ordine del giorno “consiliare” si parla già da settimane fra “chi conosce le cose” – ha in tasca due bombe: non è sicuro di uscire incolume dal Palazzo.
La mattina si è confessato e ha preso la comunione. Un saluto di rito del segretario del partito, Carlo Scorza. Subito dopo prende la parola il dittatore. Non sta bene per via dell’ ulcera, antico malanno. Un esordio breve, il suo, centrato su due temi: la polemica contro Sua Maestà, coinvolto in ogni intrigo militare, e un attacco a Pietro Badoglio, complice di qualsiasi trama. Qualche accenno ai rovesci militari, con l’ aria di sfatare luoghi comuni. La sconfitta di El Alamein va in realtà addebitata al maresciallo Rommel, comunque «mirabile combattente».
Quanto all’ ordine di resa, decretato dopo la rotta di Pantelleria, non si poteva fare nulla di diverso: solo Stalin e il Mikado possono imporre ai soldati di resistere fino alla morte. Ora il dilemma è: arrendersi a discrezione o combattere ad oltranza. L’ Inghilterra è lì che vuole assicurarsi per sempre i suoi cinque pasti. E i tedeschi? A loro ci lega un patto, e «pacta sunt servanda». In breve si arriva al culmine dell’ incontro. Per Giuseppe Bottai, ciò che ha appena detto il Duce poggia su una sola constatazione: «La dittatura ha perso la guerra. Così crolla ogni nostra illusione». Mussolini è immobile, quasi in disparte. Resta così anche mentre Dino Grandi parla dell’ ordine del giorno che ha preparato per sottoporlo all’ assemblea. Si tratta, in assoluto, di quanto di più duro e deciso sia un penoso stereotipo immaginato da Achille Starace. Mussolini perciò deve togliersi dal berretto «quella “doppia greca” che si è goffamente attribuita, deve tornare il Duce d’ una volta». Intanto, occorre sollecitare la Maestà del Re ad assumere il comando delle forze armate. «Decisamente la fortuna mi ha voltato le spalle».
Ecco – secondo il Paolo Monelli di Roma 1943 – il mormorio con il quale Mussolini commenta questa requisitoria. Tutto in sudore, ha la camicia sbottonata sotto la divisa. L’ intervento di Galeazzo Ciano, il “genero di Stato”, è tutto un attacco alla Germania, alla sua slealtà, alla sua abitudine a informarci delle sue iniziative soltanto a cose fatte. Non parlino ora di tradimento da parte nostra. Sono loro, Hitler e Ribbentrop, a tradirci. Per sistema. Vale a stento la pena di notare come il successivo intervento, dovuto a Roberto Farinacci – che molti ormai chiamano “Herr Gauleiter Farinacci” – sia di segno opposto: un inno alla Germania, cui è doveroso confermare la nostra alleanza.
Il dittatore – o quasi ex tale – non ne può proprio più. Suggerisce a Carlo Scorza di rinviare la seduta all’ indomani. Si sente male: non può affaticarsi. «Se in momenti gravi per la mia salute, il mio bravo medico non mi avesse curato a dovere, forse adesso voi non stareste tutti qui a discutere su di me», è una sua amara confidenza. La proposta di sospensione viene bocciata. Grandi, protagonista ormai di un’ ora storica, decreta: si esce da qui solo dopo che il mio ordine del giorno sia stato messo ai voti. Alla fine ci si limita a concedersi un rinfresco in una sala adiacente. «C’ è puzza di tradimento»: è l’ osservazione che viene attribuita a Guido Buffarini Guidi. A molti pare pleonastica. Il tradimento, o quel che sia, è in pieno corso . Grandi è in un altro locale a raccogliere le firme per il suo ordine del giorno. Lo sottoscrivono in tanti, più d’ uno perché non ne prevede le conseguenze.
A volte, specie nei frangenti cruciali, la stupidità non conosce limiti. All’ appello – un lampante invito rivolto a Mussolini di lasciare l’ esecutivo e rimettere il mandato al Re – rispondono sì, oltre allo stesso Grandi, Federzoni, De Vecchi, Ciano, Bottai. Gottardi, Bignardi, De Stefani, Alfieri, Rossoni, Marinelli, Albini, e qualche altro. A bocciare l’ o.d.g. sono Scorza, Bigini, (ministro dell’ Educazione), Tringali Casanova, (presidente del Tribunale Speciale), Frattari, Buffarini Guidi e il comandante della milizia, Enzo Galbiati, si astengono Suardo (presidente del Senato) e il teutonico Farinacci. La seduta è durata una decina di ore. Fino alle 2 e quaranta, notte inoltrata. Ma già a prima sera, il finale si dà per scontato in certi luoghi di ritrovo, con un lieve oscillare di versioni: Mussolini è stato messo in minoranza. È già partito per il suo rifugio di vacanze, la Rocca delle Caminate. È in seria difficoltà, ma vedrete che ritorna. In questo clima, qualche osservatore cultural-mondano ambienta una scena destinata a diventare proverbiale. Si svolge in un luogo raffinato, al romano caffè Aragno, covo di intellettuali quasi sempre oppressi dalla noia.
A un certo punto, scoppia un piccolo tumulto. Un “seniore” della milizia, in divisa e armato, apostrofa duramente uno dei presenti che, rivolto a un proprio conoscente – il poeta Vincenzo Cardarelli – gli ha chiesto: «E lei che ne pensa?». «È vietato darsi del lei», grida il Seniore. Voi non lo sapete?». L’ episodio degenera. C’ è chi difende il graduato del regime, chi spalleggia l’ inesperto di pronomi. Mario Pannunzio, giornalista anche lui, e già prestigioso, finisce per rompere una sedia sulla testa del Seniore. Il tafferuglio s’ allarga, fra poltrone rovesciate e bicchieri che volano. In quel momento entra da Aragno il redattore d’ un quotidiano, il siculo Corrado Sofia. Grida a perdifiato: «Hanno deposto Mussolini, comanda di nuovo il Re». In un angolo, un signore dall’ aria blasé commenta (sotto il fascismo il latino, per tacito decreto, è molto in auge): «Sic transit gloria mundi».
(terza parte)
.Venticinque luglio 1943. Nonostante la tremenda nottata, il Duce arriva a Palazzo Venezia alle 9, ora consueta. Ordina di cercargli al telefono Dino Grandi. Invano. Chiama Buffarini Guidi che è già seduto davanti alla propria scrivania, in un locale vicino alla sala del Mappamondo. Egli accorre un po’ trafelato, così ricorda Paolo Monelli, “con la faccia ansiosa del servitore che vuol farsi gradire”.
L’accoglienza rituale è un piccolo balsamo per il dittatore, che appare alquanto rinfrancato. Da altri colloqui mattutini ha tratto la conclusione che l’ordine del giorno che ha trionfato al Gran Consiglio si rivelerà una sorta di suggerimento, rivolto alla Corona, di riprendere un ruolo nella condotta della guerra: fra lui e il sovrano potrà dunque trovarsi un accordo su come gestire questa duplicità di comando.
Neppure una visita che fa, alle due del pomeriggio, al quartiere Tiburtino, duramente bombardato dagli Alleati il 19 luglio, lo rattristaoltre misura. Tornato a villa Torlonia, dove abita, gli riferiscono che la sua richiesta di un’udienza è stata accolta da Vittorio Emanuele III. L’ora fissata è alle 17, villa Savoia. Mussolini si veste da borghese, in blu. La villa reale è a un passo.
Appena è sceso dalla macchina, l’autista riceve l’ordine di parcheggiare in un angolo esterno della residenza; dopo qualche minuto lo vanno ad arrestare. Il duce lo ignora. Ricevendolo, Sua Maestà gli ha già domandato “Come va?”. Tutto al pari di sempre.
A villa Savoia, invece, tutto è cambiato. Nessun particolare della notte del Gran Consiglio èignoto in quelle stanze. Il loro plenipotenziario, abilissimo intrattenitore dell’algido sovrano, il duca Pietro d’Acquarone, ministro della Real Casa, ne è perfettamente al corrente.
A informarlo, fin dall’alba, è stato Dino Grandi in persona. Gli eventi di quella seduta si inscrivono, come una profezia, in un progetto messo a punto in maniera a suo modo encomiabile. Acquarone ha avvertito il maresciallo Badoglio, il “successore “: il re vuole disfarsi di Mussolini e procedere al suo arresto. Tripudio in casa dell’anziano generale (così sostengono testimonianze ufficiose).
L’antefatto dell’incontro fra Mussolini e il Re è stato scandito da un ordine minuzioso. Già prima di mezzogiorno è pronto il decreto con il quale si nomina capo del governo il vincitore di Addis Abeba. Vi sono già state apposte le firme del Re e del Maresciallo. Tutto – direbbe un osservatore malizioso – costituzionalmente in ordine.
Altri particolari di ordine pratico sono stati predisposti con premura: quella di un’autoambulanza per caricarvi il Duce al termine del colloquio, è apparsa una buona idea. Si fa strada un solo dubbio, espresso da Cerica, il comandante generale dei Carabinieri: arrestare Mussolini va benissimo, resta da decidere dove. Fuori i cancelli della villa? Il parere del super-carabiniere è che sarebbe opportuno, e certo più sicuro, farlo all’interno dell’amena residenza.
Cerica aspetta comunque un ordine preciso: lo sollecita ad Acquarone, che ne parla al Re. Il quale, dopo qualche indugio venato da nervosismo, decide: l’arresto avrà luogo “dentro”.
Non è stata, quest’ultima, una controversia da nulla, e risulta perciò lampante il turbamento del Sovrano nel risolverla. Si colloca al di fuori di ogni regola codificata, di ogni norma decente, di ogni protocollo politico- istituzionale l’ipotesi cheun Capo di Stato faccia arrestare in casa propria il suo primo ministro. Come vedremo, questa circostanza susciterà aspri dissensi nella stessa famiglia del sovrano.
Ma torniamo all’arrivo di Mussolini a Villa Savoia. Dopo il saluto rituale, il re gli dice, alla piemontese: “L’Italia va in tocchi, caro duce”. Non lo aveva mai chiamato “duce”, sempre “eccellenza”. Altra variante alla consuetudine: il re ha perso lestaffe e si è messo a urlare contro Mussolini: così asserisce qualcuno che ha avuto il privilegio di poter origliare, e lo dice alla regina Elena. Infine Sua Maestà comunica al despota che ha deciso di sostituirlo e di mettere al suo posto Badoglio.
Qui la regina riferisce in un’intervista quanto ha potuto osservare di persona, dalla finestra d’una sala, sul finale dell’incontro. “Mio marito ormai tranquillo e sereno accompagna l’ospite sulla scalinata della villa”. “Il colloquio è durato meno di venti minuti”. “Mussolini appare invecchiato di vent’anni”. Infine, il re gli stringe la mano, l’altro muove qualche passo nel giardino, ma viene fermato da un ufficiale dei carabinieri seguito da soldati, che lo accompagnano all’autoambulanza.
La regina, subito dopo aver seguito, almeno in parte, lo spettacolo, è assai irritata, soprattutto per un particolare cui accennavo poc’anzi. “Mi sentivo ribollire”, così riassume il proprio stato d’animo. “Per poco non sbatto contro mio marito che rientra. “È fatta”, dice piano lui. “Se dovevate farlo arrestare”, gli grido, “questo doveva avvenire fuori di casa nostra. Ciò che avete fatto non è un gesto da sovrano”. Lui ripete: “È fatta”, e cerca di prendermi sottobraccio, ma io mi allontano da lui. “Non posso accettare una cosa del genere”, protesta. “Mio padre non l’avrebbe mai fatto”. Poi vado a richiuderminella mia cameretta”.
Un particolare della vicenda ricostruito a suo modo, e chissà con quanta attendibilità, deriva dalle dichiarazione di un personaggio che non si può immaginare più diverso da una testa coronata. Parlo d’uno scrittore sublime a nome Carlo Emilio Gadda.
Nella sua biografia firmata da Giulio Cattaneo e intitolata Il Gran Lombardo, egli dichiara testualmente: “Mussolini, quando sale nell’autoambulanza, se la fa addosso “. E aggiunge. “Questo me l’ha detto anche Mario Luzi, che è persona seria”.
Non si saprà mai su quali fonti questi due letterati di gran nome fondino le loro affermazioni in merito a una circostanza storica così decisiva.
NELL’ ULTIMA FOTO
Domenica 11 Agosto 2013
ROMA – È morto a Roma il giornalista e scrittore Nello Ajello, firma storica di Repubblica e dell’Espresso. Aveva 82 anni . Era da tempo malato di tumore, ma l’ha scoperto solo di recente perchè concentrato su un dolore più grande: la malattia della moglie Giulia, scomparsa lo scorso 25 luglio. In redazione lo ricordano per il suo stile quasi anglosassone e la sua ironia. Se in questo mestiere non ci si diverte meglio cambiare, diceva. E la sua vena traspare negli articoli e nei corsivi che hanno raccontato il Novecento, dalla Prima Repubblica, a Mani Pulite, fino agli ultimi venti anni. Si perchè Nello Ajello, morto a Roma a 82 anni, è rimasto attivo fino all’ ultimo. Lo ha stroncato un tumore, poche settimane dopo la morte della moglie Giulia. Lascia i figli Elvira e Mario.
LA CARRIERA Giornalista e scrittore, il suo nome è legato inscindibilmente a La Repubblica, quotidiano per il quale ha scritto di politica e cultura. Dall’89 al ’91 diresse anche il supplemento culturale Mercurio. Napoletano di nascita, muove i primi passi nella rivista Nord e Sud, va a Torino a lavorare per l’Olivetti, quindi la collaborazione con Il Mondo di Mario Pannunzio. Dà lì l’ esperienza all’Espresso, settimanale di cui diventa condirettore con Livio Zanetti, per poi passare a scrivere per il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Gli ultimi articoli hanno raccontato, in occasione del 70mo anniversario, il 25 luglio 1943. Si definiva un giornalista culturale, colto ma sempre attento alla notizia. «Un giornale – scrisse – è per definizione quanto di più pragmatico e di meno protocollare esista anche quando ospita temi culturali. Incenso e gloria: ecco due ingredienti che mi piacerebbe non figurassero in queste pagine». Nel 1981 si aggiudica il Premio Saint Vincent per il giornalismo e nel 2006 il Premio Letterario città di Palmi. Il suo nome è infatti legato anche alla saggistica. «Intellettuali e PCI. 1944-1958» e «Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991», entrambi editi da Laterza, raccontano in maniera dettagliata e arguta un pezzo di storia del Partito Comunista Italiano. Sempre edito da Laterza, nel 2006, è «Illustrissimi. Galleria del Novecento»: un album di articoli, interviste e profili critici, ricco come diceva lui stesso di aneddoti, indiscrezioni, malignità, oltre che di affetti e sorrisi rubati. In «Taccuini del Risorgimento», Ajello si immerge invece nell’ 800, anche qui non con il piglio dello storico, ma del giornalista che ama raccontare. Con Garzanti scrive «Lezioni di giornalismo» nel 1985 e «Italiani di fine regime» nel 1993. Il corsivo – diceva – nasconde l’animosità dietro l’ironia.