chiamamanda (35 anni)
Io sono una raccontatrice di storie. Mi piacerebbe raccontarvi alcune storie personali su quello che io chiamo “il pericolo di una storia unica”.
Sono cresciuta in un campus universitario nella Nigeria dell’est. Mia madre dice che ho cominciato a leggere a due anni, ma io penso che quattro si avvicini di più alla realtà. Per cui, ero una lettrice precoce e quel che leggevo erano i libri per bambini inglesi e americani.
Sono stata anche una scrittrice precoce, e quando avevo circa sette anni ho cominciato a scrivere storie a matita, con illustrazioni a pennarello, storie che la mia povera mamma era obbligata a leggere. E scrivevo esattamente le storie che stavo leggendo. I miei personaggi erano tutti bianchi e con gli occhi azzurri, giocavano nella neve, mangiavano mele e parlavano molto del tempo, su come era meraviglioso il nascere del sole. Questo nonostante io vivessi in Nigeria e non fossi mai uscita dalla Nigeria. Noi non avevamo la neve, mangiavamo mango e non parlavamo granché di che tempo faceva, perché non ce n’era necessità.
Ciò che questo dimostra, penso, è quanto impressionabili e vulnerabili siamo di fronte ad una storia, in particolar modo da bambini.
Poiché tutto quel che io leggevo erano libri i cui personaggi erano stranieri, mi convinsi che i libri per loro stessa natura dovevano avere personaggi stranieri e parlare di cose con cui io non potevo identificarmi personalmente. La faccenda cambiò quando scoprii i libri africani. Non ce n’erano molti di disponibili e non erano così facili da trovare come quelli stranieri. Ma grazie ai libri di Chinua Achebe e Camara Laye la mia percezione della letteratura cambiò: capii che persone come me, ragazze con la pelle color cioccolato i cui capelli crespi non potevano formare code di cavallo, potevano ugualmente esistere all’interno della letteratura. Io cominciai a scrivere di cose che riconoscevo. Bene, io amavo quei libri americani e britannici che leggevo. Toccavano la mia immaginazione, mi aprivano nuovi mondi. Ma la conseguenza insperata fu che non sapevo che persone come me potevano esistere in letteratura. La scoperta degli scrittori africani fece questo per me: mi salvò dall’avere una storia sola su cosa sono i libri.
Io vengo da una famiglia della classe media nigeriana. Mio padre era un professore. Mia madre un’amministratrice. Perciò, di norma, avevamo aiuto domestico, persone che venivano dai vicini villaggi rurali e abitavano con noi. Quando compii otto anni un nuovo domestico entrò nella nostra casa, un ragazzo di nome Fide. La sola cosa che mia madre mi disse di lui fu che la sua famiglia era molto povera. Mia madre mandava loro cibo e i nostri vecchi vestiti, e quando io non finivo la cena diceva: “Mangia, non sai che c’è gente come la famiglia di Fide, che non ha nulla?” Io provavo una pena enorme per Fide e i suoi parenti.
Poi, un sabato, andammo a far visita alla sua famiglia, al villaggio, e sua madre ci mostrò un bellissimo cesto di rafia, dai disegni straordinari, che suo fratello aveva fatto. Ne fui scioccata: non mi era mai passato per la mente che qualcuno nella famiglia di Fide facesse qualcosa, tutto quel che sapevo di loro era che erano poveri, perciò diventava impossibile per me vedere altro di loro oltre la povertà. La povertà era la sola storia che conoscevo di loro. Pensai a questo anni più tardi, quando lasciai la Nigeria per frequentare l’Università negli Stati Uniti. Avevo 19 anni. La mia compagna di stanza americana restò sconvolta da me. Mi chiese dove avevo imparato a parlare inglese così bene, e restò confusa quando le risposi che la lingua ufficiale della Nigeria è l’inglese. Poi mi chiese se poteva ascoltare quella che lei chiamò la mia “musica tribale” e ci rimase molto male quando le allungai un nastro di Mariah Carey. Pensava anche io non sapessi usare una cucina con fornelli. Ciò che mi colpì era questo: lei si sentiva dispiaciuta per me ancora prima di vedermi. La mia compagna di stanza aveva una sola storia dell’Africa, una storia di catastrofi. In questa singola storia non c’era la possibilità che gli africani le somigliassero in qualche modo, non c’era la possibilità di provare sentimenti più complessi di una pietà condiscendente, nessuna possibilità di connessione fra eguali esseri umani.
Dopo aver passato qualche anno negli Usa come africana ho cominciato a capire la mia compagna di stanza. Se io non fossi cresciuta in Nigeria, e se tutto quello che sapessi dell’Africa venisse dalle immagini più comuni di essa, penserei anch’io che l’Africa è un posto di bellissimi paesaggi, bellissimi animali e gente incomprensibile, che combatte in guerre insensate, che muore di povertà e di Aids, incapace di parlare per se stessa e in attesa di essere salvata da un gentile straniero bianco. Vedrei gli africani, insomma, nello stesso modo in cui da bambina vedevo la famiglia di Fide. La singola storia dell’Africa, in ultima analisi, viene dalla letteratura occidentale. C’è una frase di un mercante inglese, John Locke, che andò per nave in Africa nel 1561 e tenne un affascinante diario del suo viaggio. Dopo aver definito i neri africani “bestie senza casa” aggiunge “Sono anche persone senza testa, poiché hanno la bocca e gli occhi nel petto.” Io rido ogni volta in cui la leggo. E l’immaginazione di John Locke è ammirevole. Ma quel che è importante è che i suoi scritti rappresentano l’inizio di una tradizione nel narrare storie dell’Africa in Occidente: una tradizione che definisce l’Africa un luogo di negatività, di differenze, di oscurità, di persone che – per dirla con le parole di Rudyard Kipling – sono “metà diavoli e metà bambini”. Mentre ero all’Università, un insegnante mi disse che aveva letto un mio racconto e che esso non era “autenticamente africano”. Ora, io sono d’accordo sul fatto che un certo numero di cose non andavano, nel racconto, ma non avrei mai immaginato di fallire nel raggiungere qualcosa chiamato “autenticità africana”. In effetti non sapevo cosa questa fosse. Il professore mi disse che i personaggi assomigliavano troppo a lui stesso, erano istruiti, guidavano automobili, non morivano di fame. Perciò, non erano autenticamente africani. Anche lui aveva sentito un’unica storia.
Ed è impossibile parlare dell’unica storia senza parlare di potere. C’è una parola Igbo che mi viene sempre in mente quando penso alle strutture del potere, ed è “nkali”. E’ un sostantivo che si può rozzamente tradurre come “essere più grande di un altro”. Come la politica e l’economia, le storie sono definite dal principio del “nkali”: come sono raccontate, chi le racconta, quando sono raccontate e quante ne sono raccontate, tutto dipende dal potere. In questo caso il potere è non solo l’abilità del narrare la storia di un altro, ma il fare di essa la storia ultima, definitiva, dell’altro. Il poeta palestinese Mourid Barghouti ha scritto che se tu vuoi spossessare un popolo, il modo più semplice di farlo è raccontare la sua storia e cominciarla con “in secondo luogo”. Dai inizio alla storia con le frecce dei nativi americani e non con l’arrivo dei britannici, ed hai una storia interamente diversa. Comincia la storia con il fallimento degli stati africani, e non con la creazione coloniale degli stati africani, ed hai una storia interamente diversa.
Di recente, ho parlato in un’Università dove uno studente mi ha detto che era proprio un peccato che gli uomini nigeriani fossero dei violenti come il padre personaggio di uno dei miei romanzi. Io gli ho risposto che avevo appena letto un racconto dal titolo “American Psycho” e che era proprio un peccato che i giovani americani fossero degli assassini seriali. Naturalmente ero un po’ irritata quando l’ho detto. Ma a me non è mai passato per la mente di credere che, siccome ho letto una novella in cui un personaggio è un serial killer costui rappresenta in qualche modo tutti gli americani. Non è perché sono una persona migliore di quello studente. E’ perché ho più storie dell’America, ho letto Tyler e Updike e Steinbeck e Gaitskill. Non ho una sola storia degli Usa.
Qualche anno fa, ho scoperto che ci si aspetta che gli scrittori abbiano delle infanzie davvero infelici per avere successo, così ho cominciato a pensare se riuscivo ad inventare cose orribili che i miei genitori mi avevano fatto. Ma la verità è che avuto un’infanzia molto felice, piena di allegria e di amore, in una famiglia molto legata. Ho avuto, anche, nonni che sono morti in campi profughi. Mio cugino Polle morì perché non poté accedere a cure mediche adeguate. Sono cresciuta sotto governi militari repressivi che non davano valore all’istruzione, perciò a volte i miei genitori non riscuotevano i loro salari. Per cui, da bambina, ho visto sparire dalla tavola della colazione dapprima il prosciutto, poi la margarina, e poi il pane divenne troppo costoso, e il latte venne razionato. E, più di tutto, una sorta di normalizzazione della paura invase le nostre vite.
Tutte queste storie hanno fatto di me ciò che sono. Ma se insistessi solo su quelle negative appiattirei la mia esperienza. Molte altre storie mi hanno formata. La storia singola crea stereotipi, ed il vero problema con gli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Rendono una storia l’unica storia che c’è. La conseguenza della sola storia è questa: deruba le persone della loro dignità. Ci rende difficile riconoscerci l’un l’altro come esseri umani. Enfatizza quanto siamo diversi e non vede quanto siamo simili.
Il mio editore nigeriano ed io abbiamo appena dato inizio ad un progetto non-profit chiamato “Farafina Trust” e abbiamo questi grandi sogni di costruire biblioteche e di rifornire biblioteche che già esistono e fornire libri alle scuole che non hanno nulla nella loro biblioteche, ed organizzare un numero infinito di seminari, di lettura e scrittura, per le persone che vogliono sapere e raccontare più di una storia sola. Le storie sono importanti. Avere molte storie è importante. Le storie possono essere usate per spossessare e disprezzare, ma possono anche essere usate per dar potere ed umanizzare. Le storie possono spezzare la dignità delle persone, ma anche restaurare quella dignità in frantumi.
dal bellissimo BLOG DI LUNANUVOLA (sei un capo indiano? grazie, chiara)
Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice Igbo nigeriana, è nota in Italia per i romanzi “Ibisco viola” e “Metà di un sole giallo” (Premio Nonino 2009). Il testo che segue è tratto da una sua conferenza in video. Trad. Maria G. Di Rienzo
17 ottobre 2012 di lunanuvola
Che bello il pezzo di questa scrittrice: sa davvero raccontare storie multicolori!
Che bella persona e che straordinaria conoscenza del mondo e della vita ha, questa scrittrice nigeriana.