“Prevenire è rieducare”, di Concita De Gregorio
Continuiamo a pubblicare commenti sul nuovo decreto legge sul femminicidio:
da La Repubblica 9 agosto 2013
Inasprire le pene non basta, naturalmente, e forse non serve. Le buone leggi non sono quelle che nascono dalle pessime abitudini e tentano di sanarle, condonarle, depenalizzarle, regolarle e infine punire, sì, chi davvero esagera. Di quelle siamo pieni. Le buone leggi sono quelle che provano a indicare una rotta, e la tracciano. Sono quelle che tentano di definire il perimetro di ciò che la cultura civile deve (dovrebbe) ritenere giusto e lecito e non nascono allo scopo di contenere il danno dei comportamenti diffusi, illeciti o criminali, ma hanno l’ambizione di cambiare le regole della convivenza nella testa e nel cuore dei cittadini prima che nelle aule di tribunale. In questo caso inasprire la pena è eventualmente un segnale, appena un inizio. Forse un deterrente, in qualche raro caso, ma non basta e non serve. È piuttosto difficile difatti immaginare che chi massacra di botte una donna sia dissuaso dal farlo dalla consapevolezza, ammesso che ce l’abbia, che rischia cinque o dieci anni in più di galera. Non è l’ergastolo eventuale a fermare la mano di chi fa a pezzi la moglie e la seppellisce in giardino, né l’eventualità di un arresto può cambiare l’atteggiamento di chi picchia abitualmente la donna con cui vive, e se ci sono i figli ad assistere pazienza, anzi meglio così imparano subito come va il mondo. È semmai, caso per caso, l’educazione che quell’uomo ha ricevuto in famiglia e a scuola, le parole e i gesti che ha visto e sentito per decenni tutto attorno a sé, da suo padre e sua madre, nella vita e in televisione, è lo sguardo degli altri sul suo. Lo sguardo degli altri: se sia indulgente, indifferente o feroce. La disapprovazione sociale, il disprezzo di chi ti sta intorno: questo sì, forse, può fermarti.
In questo senso la parte più interessante del decreto che vuole combattere la violenza sulle donne – violenza che dilaga da anni dietro una soglia di vigilanza laschissima, un generale compatimento compiaciuto – non è la prima, pene più severe, ma la seconda e la meno nitida, quella che parla del “pacchetto di provvedimenti di prevenzione”. Certo. È più difficile e ci vuole più tempo. Eppure non c’è altro modo che non sia quello di cominciare dalle scuole, dall’educazione in classe, dal non consentire alle femmine quello che è consentito ai maschi, dalla formazione di personale che sappia parlare ai più piccoli perché sono i bambini quelli che tornano a casa e insegnano severi agli adulti: questo non si fa. Dal rifinanziamento dei centri antiviolenza, in via di scomparsa. Dall’evitare, quando vai a denunciare che il tuo ex ti perseguita o che il tuo compagno ti riempie di botte, che non ci sia solo, come spesso accade, qualcuno al commissariato che ti dice “Signora, torni a casa”. Ci vogliono molti soldi, per fare tutto questo, ma prima ancora ci vuole la consapevolezza che si tratta di una priorità assoluta: culturale, non giudiziaria.
Perché poi le regole, quando sono da sole a combattere la loro guerra, sembrano ingiuste anche quando sono giuste. Dire che la pena sarà di un terzo più severa nel caso in cui le vittime siano incinte o mogli o compagne o fidanzate del carnefice è comprensibile, dal punto di vista del legislatore, perché sì che battere una donna che aspetta un bambino o che ha un vincolo di fiducia con chi la aggredisce è più grave. Ma stabilisce anche una discriminazione culturalmente delicatissima verso le donne che non fanno figli e non hanno legami con un uomo. In che senso uccidere una donna non sposata e non madre è meno grave? Vale forse di meno per la società?
Infine. Che la querela non sia ritirabile è decisione ottima, giacché chi è vittima di violenza è anche in genere vittima di intimidazione. Tuttavia nella grande maggioranza dei casi le donne offese non sono in condizione di denunciare. Perché non sanno, non possono, a volte perché non vogliono. Ciò che emerge alle cronache è una parte minima di ciò che accade. Ci sono dunque casi in cui si dovrebbe poter procedere d’ufficio. Non lasciare sole le donne che subiscono violenza significa anche alleggerirle dal peso di una scelta a volte tremenda, in specie se ci sono figli piccoli o se la donna dipende economicamente dall’uomo. Andare a controllare, verificare, assisterla anche se non è lei a chiederlo.
Trattare poi le minacce verbali, quando avvengono per scritto su Internet attraverso i social media, alla stregua dei vecchi biglietti sotto la porta o delle scritte sul finestrino della macchina, è semplicemente prendere atto del fatto che esistono forme di comunicazione ormai non più così nuove, adeguarsi a una realtà evidente e prenderla finalmente in considerazione.
È una buona notizia, che questo decreto ci sia. Che Josefa Idem l’abbia voluto come primo atto del suo breve mandato, sarebbe stata un buon ministro e lo sa bene Enrico Letta che dopo averla invitata a dimettersi con intransigenza fortemente diseguale ieri l’ha pubblicamente ringraziata. È una buona notizia che tenga conto della convenzione di Istanbul ratificata poche settimane fa in un’aula parlamentare deserta. Quell’aula era deserta, però. Come se questi fossero atti dovuti che non cambiano le cose, non interessano nessuno. È da quel vuoto, da quel che c’è nella testa di chi si volta dall’altra parte, che si deve partire.
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