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TOULOUSE LAUTREC: chiara e la sua ombra (il Professore) nell’ultimo delirio
parti precedenti si trovano in:
I. 8 aprile 2013 ore 18:42 ULTIMA PARTE DEL LIBRO DI CHIARA: UN DELIRIO “A DUE”. parte 13-14
II. 11 aprile 2013 ore 06:51 CHIARA, ULTIMA PARTE, n.15/16
IV. 4 MAGGIO 2013 ORE 08:45 ULTIMA PARTE LIBRO CHIARA: UN DELIRIO A DUE E SVILUPPI: PARTE XX- XXIII
VI . 10 giugno 2013 ore 07:24 ULTIMA PARTE DEL LIBRO DI CHIARA/ CAP. XVIII-XXX “COME CONSEGUENZA DELL’EPISODIO DEL MEZZADRO CAMBIA IL MODO DI VEDERE MIO PADRE”
XXXI nella mania rinasceva un’immagine grandiosa di me stessa
Un’altra conseguenza di questa storia con il mezzadro, era che la mia possibilità di volermi bene, di accettarmi, di sviluppare al meglio le mie capacità, quello che si chiama comunemente il narcisismo “buono” di una persona, il cui unico approvvigionatore era mio padre, era venuta meno in seconda media, mentre io avevo distrutto la mia capacità di fabbricarmelo.
Inoltre, coperta com’ero di vergogna dalla testa ai piedi, umiliata, non ero stata in grado di trovare, fuori della famiglia, qualcuno che potesse sostituirlo.
Quella mia immagine di bambina idolatrata era stata sepolta, non aveva potuto evolversi, e veniva fuori nella terapia con tutta la sua violenza e la sua pretesa di amore incondizionato e di ammirazione.
Purtroppo nessun terapeuta aveva potuto riconoscere che si trattava di una bambina che aveva bisogno solo di crescere ed invece veniva respinta.
L’immagine grandiosa di questa bambina rinasceva così puntualmente nella mania e nel delirio, ed io ero presa dalla sua meraviglia.
La strada che il terapeuta ha ritenuto di seguire perché io imparassi a sviluppare le mie capacità è stata molto difficile, molto tortuosa e infinitamente lunga, anche se le poche parole che troverò per raccontarlo non renderanno quello che ha significato.
Non potevo aspettarmi da lui elogi di sorta, ma trovarli fuori nella realtà.
Se uno non muore prima, è sicuramente la strada giusta, la più solida, perché uno impara a trovare le persone che gli offronto un sostegno affettivo e, anche, in mancanza di queste, a procurarselo da solo.
Bisogna però poter lavorare anni e anni senza alcun incentivo, e mentre ti senti nella melma, e non vedi a mezzo passo dal tuo naso.
La possibilità di formarmi un’immagine gradevole e intera di me stessa è forse stato ancora più difficile: questa possibilità è legata per me alla risoluzione della mia ultima crisi, di cui parlo in seguito, anche se è un lavoro sempre “in fieri”.
L’enorme difficoltà, per me, era passare da un’immagine esclusivamente fantasticata, meravigliosa o terribile, ad una sufficientemente realistica.
Questo obiettivo credo sia stato abbastanza raggiunto, anche se, a volte, vorrei potermi considerare con un po’ più di entusiasmo.
Forse la realtà mi sta sempre un po’ stretta, o forse anche il tono un po’ depressivo che a volte sento è dovuto al sentirmi preoccupata per mia figlia Francesca che, come molti ragazzi di oggi, sembra avere enormi difficoltà a crescere. E’ stata una bambina piena di vita e, oggi, che ha vent’anni, sembra non aver voglia di niente.
XXXII alla fine del delirio ho sentito molta violenzain me, ma mi sono accorta di aver mantenuto una pazzia privata e di non aver spezzato i legami
Il delirio, anche quando se ne va, rimane lì pronto per i momenti difficili.
Ero andata in clinica per il prelievo del litio e una visita cardiologia.
Era la clinica dove ero stata internata la prima volta.
E dove è morta mia madre.
Uno spazio carico di angoscia stratificata.
Mi guardavo intorno in cerca di telecamere e dovevo ripetermi, come una lezione da mandare a memoria, più e più volte, che qui non c’era nessuna telecamera che mi filmava, potevo fare e dire quello che volevo, non mi vedevano, non mi controllavano.
In treno, guardando fuori dal finestrino, mi ero accorta che la realtà può essere gratificante e splendente come nel delirio.
Era una realtà carica di affettività, un’energia in più che la rendeva brillante e perfetta.
Nel delirio, o nei momenti immediatamente successivi, la percezione della realtà è più “ricca”, proprio come nei sogni.
Vorrei non aver dovuto perdere questo tipo di sguardo.
Era come se la mia mente fosse rimasta traumatizzata e ci volesse un tempo lungo per rimettermi.
Nei due giorni che sono seguiti alla sparizione del delirio, avevo la sensazione di avere dentro di me una violenza inaudita… non veniva fuori affatto come violenza, ma nel dire le cose quotidiane, nel mio comportamento… sentivo un’ eco che mi spaventava. Non è facile comunicare questo rumore.
Questa crisi, la sofferenza – questa sì inaudita – di vivere continuamente in uno stato di panico e non poter far niente.
Questa traumatizzazione dei miei tessuti mentali, mi aveva lasciato dentro questa violenza.
Come la mia fosse stata un’ “impossibile” frustrazione.
Una notte avevo bruciato il lenzuolo con una sigaretta… incendiato il cestino buttando una sigaretta accesa…
A partire da una certa data ero andata al mare in vacanza a casa di mia sorella.
Erano tutti molto gentili.
Ogni tanto c’era chi mi parlava di persone interdette, di handicappati…ma col tempo – pensavo – riguadagnerò la faccia perduta o un po’ sgretolata.
Mi ero convinta di non aver fatto nessun danno perché in generale le persone non se ne erano accorte.
A Milano era stata a cena in casa di amici e, pur dovendo tradurre le loro parole nell’ideologia del delirio, un lavoro molto faticoso perché dovevo rispondere a loro e, contemporaneamente, all’ideologia del delirio, avevo potuto mantenere una pazzia privata.
Ero riuscita, anche se con fatica, a mantenere il senso comune della situazione.
I rapporti con la mia famiglia, a differenza che nelle altre crisi, si erano mantenuti uguali, costantemente affettuosi.
Questa volta non avevo rotto i legami.
XXXIII e il mio terapeuta?
Lei non era neanche un po’ preoccupato a lasciarmi andare sola per il mondo e in delirio?
Al mio ritorno – pensavo – mi troverà “rifatta”…
Si stupirà di come ho potuto vivere bene senza di lui.
Vedrò nei suoi occhi la contentezza di sapere che posso essere felice lontano da lui.
Quando se n’era andato per le ferie, ero impazzita.
Ma poi, come sempre avevo obbedito.
Come mi vedrà il Professore dopo questa crisi? – mi chiedevo.
Ancora più stigmatizzata.
Lui che aveva creduto, tanto da regalarmela, in “ una mia parte sana e consistente…”
Sarà deluso?
Ma la mia parte sana aveva fatto miracoli, il successo del nostro viaggio era assicurato, una parte sana non può annullare la parte malata.
Può solo contenerla e l’aveva fatto.
Così pensavo io.
Forse ero troppo entusiasta.
Ma non avrei mai pensato di riuscirci.
Avevo evitato distruzioni, pur impazzendo, o forse è proprio impazzendo che le avevo evitate.
La mia parte sana, la parte protettiva della mia coscienza, il mio io, pur collassati, si erano comportati bene.
La fiducia che lui aveva riposto in me era stata un peso, ma anche un puntello.
Ma pensavo di avervi potuto rispondere.
Dentro le mie possibilità.
XXXIV il delirio si esprime anche in una forma gruppale in cui gli altri partecipano al delirio senza saperlo
In quest’ultimo delirio, le persone intorno a me ricreavano le figure del mio mondo interno come in un teatro.
Tutti quei personaggi che vediamo nel terapeuta senza accorgercene, erano adesso vivi e autonomi.
Anche in una seduta sono lì e partecipano delle emozioni, ma sono tutte concentrate nella persona del terapeuta, nei suoi gesti, nelle sue espressioni, come quelle figure che si sovrappongono una all’altra nei sogni.
Il terapeuta è come una bambola russa, solo che si apre sull’infinito del nostro mondo interno.
Nel delirio, queste figure riprendono una loro autonomia di movimento e si spargono su tanti volti, su tanti gesti, tante espressioni e le vediamo reali.
Questo fatto documenta la frammentazione del mio mondo interno.
Mario, mio marito, era mia madre e mio padre, Francesca, mia figlia, era me stessa adulta e bambina.
Mia sorella e mio cognato, una coppia genitoriale cui affidarsi, ma nello stesso tempo, sottrarsi: a loro avevo nascosto il delirio.
Lei, il mio punto di riferimento, il mio Capitano, era rappresentato soprattutto da un’amica, “ una persona non esperta” perché lontanissima dalla psicoanalisi e dai problemi del mondo interno.
Forse per questo lei è rimasto ad un certo punto sullo sfondo.
Avevo bisogno di qualcuno concreto, un’immagine viva che mi stesse vicino.
La mia amica non era una buona ascoltatrice del delirio: mi stava a sentire qualche minuto, poi preferiva che cambiassi disco, mi riportassi alla realtà.
E questo lo sentivo come una violenza, anche se, a poco a poco, ho potuto servirmene.
Con mio marito e mia figlia il rapporto era più scoperto.
All’inizio credevo ci fosse un canovaccio cui si attenessero e li accusavo di dire delle grandi stupidaggini.
Ma poi ho capito che loro erano normali.
Dicevano quello che passava loro per la testa, solo si sottoponevano ad una terapia per me e per loro, per aiutarmi ed aiutarsi (così fantasticavo).
C’era la lontana giurisdizione degli Stati Uniti, ma le persone si facevano terapia tra di loro.
In fondo non è così strano: le persone che abitano insieme si fanno in un certo senso una terapia di sostegno, una terapia buona quando sono in armonia.
Il delirio aggiunge significati inediti alle cose reali.
Nella seduta con lei e con lo psichiatra, voi eravate solo dei professionisti incaricati di fare una terapia a me.
Ero nella realtà, volevo utilizzare quanto potevate dirmi al massimo. Sapevo di essere malata. Avevo messo il delirio fra parentesi. Abbastanza tra parentesi, del tutto è impossibile.
Potenza ‘taumaturgica’ della scrittura, bene cara Chiara.