4 giugno 2013 ore 10:05 UN COMMENTO DA ISTANBUL DI AVRUPA SULL’ARTICOLO DI LORENZO POSOCCO /DA LIMES// (ARTIC. SEGUENTE)—VEDETE CHE IL MONDO E’ DAVVERO VARIO E VARIOPINTO—A CHI CREDERE? PURTROPPO, “CREDERE”, NON BISOGNA CREDERE A NESSUNO, SOLO AL BUON DIO, SE C’E’—MA “SENZA CREDENZE” LA VITA DIVENTA QUASI IMPOSSIBILE…

 

 

CHIARA: scusatemi, non ho tempo di aggiustare l’impaginazione, ma piu’ o meno, se uno ha interesse a leggere, si legge…né ho tempo di dirvi le credenziali di Avrupa, prima perché non le ho, secondo…corro alla cosiddetta “vita quoti” che ti impiega una valanga di tempo per mangiare, pulire, fare “ciù-ciù” a tutti quelli che incontri come fa, forse purtroppo,  chiara, ma l’altra faccia della medaglia è che si muove, lei come tanti altri (per esempio, Donatella, nemo, franchina ecc ecc) in “una rete di affetti e simpatia” (mai approfondire!) che le fanno da girello…e lei, così, solo così, va per il mondo…….. “da sola”! (non fa più blu-b lu, ma vopi non perdetevi “la profondità dei puntini ultragrossi—sì chiara è un po’ idiota, ma lo sa…)

Istanbul, Avrupa

analisi e reportage da Istanbul capitale europea e dalla Turchia

 

La Turchia di Lorenzo Posocco (e di Limes)

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In questi giorni non ho il tempo di leggere la stampa italiana: ovviamente non lo farei per informarmi – non ne ho davvero bisogno, le notizie le ho di prima mano – ma per continuare le mie analisi sul modo in cui i lettori vengono disinformati.

Una mia amica ha però postato sul suo profilo Facebook una testimonianza pubblicata sul sito web di Limes: e data l’autorevolezza della testata – senza prestare attenzione al nome dell’autore – sono passato alla lettura; poi mi sono reso conto che di Lorenzo Posocco avevo già letto un altro articolo: troppo ideologicamente orientato – a sinistra, la sinistra movimentista e antagonista – per i miei gusti.

Ho iniziato a leggerlo, ma a un certo punto mi sono fermato e non sono riuscito ad andare avanti:

‘È importante ripetere che questa rivolta consiste nella lotta contro le politiche del governo, nella paura che si possa andare alla deriva verso una Repubblica Islamica, nella perdita delle libertà di cui l’attuale costituzione, frutto di una guerra di liberazione, è diretta emanazione e garanzia.’

Al di là delle sciocchezze sulla “Repubblica Islamica” [sic], ma come fa qualcuno che ha un minimo di studi universitari alle spalle a parlare di “libertà di cui l’attuale costituzione, frutto di una guerra di liberazione, è diretta emanazione e garanzia”? Magari il buon Posocco farebbe bene a partecipare a qualche manifestazione in meno e a leggere qualche libro in più: vi troverebbe scritto che l’attuale costituzione della Turchia è di stampo autocratico ed è entrata in vigore nel 1982 ed è il frutto di un colpo di stato militare, altro che “garanzia di libertà”!

Mi sono fermato lì, proprio non ce l’ho fatta ad andare avanti. Mi dispiace solamente per lo scivolone di Limes, perche’ di solito – anche sulla Turchia – pubblica materiale di qualità.

 

altro articolo di AVRUPA:

 

Turchia, ondata di proteste

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Tutto è nato per un parco, ma le cause sono più profonde e diverse. Istanbul e molte altre città della Turchia sono da venerdì teatro di manifestazioni e proteste: l’obiettivo in principio era la salvaguardia del Gezi Parkı a ridosso di piazza Taksim, di ridotte dimensioni e non particolarmente curato, oggetto di un vasto e poco trasparente progetto di sviluppo urbano che prevede la ricostruzione della caserma ottomana dell’artiglieria – Topçu Kışlası, demolita nel 1940 – per destinarla probabilmente a centro commerciale, a residenze di lusso, a non meglio precisati spazi sociali; l’intervento affrettato e sbrigativo della polizia – che ha sgombrato un gruppetto di un centinaio di persone all’alba di venerdì 31 maggio – ha scatenato una reazione a catena, i manifestanti sono diventati migliaia e poi decine di migliaia: animati da ostilità nei confronti del governo dell’Akp e in particolare del premier Erdoğan, accusato di essere un autocrate intento a imporre un modello di società conservatrice ispirato all’Islam.

Ulteriori tentativi di disperdere la folla – facendo largo uso di gas lacrimogeni e idranti – hanno fatto allargare la protesta a macchia d’olio; iniziative di solidarietà – definite “resistenza” o “ribellione” – sono spuntate un po’ dappertutto tranne che nei feudi elettorali dell’Akp: caroselli di auto, sostegno ai manifestanti con distribuzione di limoni (contro i gas), bandiere nazionali anche con l’effigie di Atatürk, attraversamento in massa e a piedi del ponte sul Bosforo, percussioni a ore prestabilite di pentole e coperchi da parte di chi è rimasto a casa, slogan per chiedere le dimissioni ai vertici politici. Il primo ministro, nella giornata di sabato, ha utilizzato toni di sfida nei confronti dei manifestanti e soprattutto del leader dell’opposizione kemalista Kılıçdaroğlu: accusato di cavalcare la protesta per finalità di partito (del suo partito, il Chp); ha anche osservato che «ogni quattro anni ci sono le elezioni e il popolo può fare le sue scelte», che «quelli che hanno problemi con le politiche del governo possono esprimere le proprie opinioni ma rispettando le leggi e le regole della democrazia».

Solo l’intervento del presidente Gül appena rientrato da un viaggio in Turkmenistan – che ha parlato al telefono con il governatore di Istanbul, con il ministro degli interni, con lo stesso premier – ha riportato la calma: la polizia si è gradualmente ritirata da piazza Taksim (ma le proteste e gli scontri sono proseguiti altrove), sono state promesse indagini sulla correttezza delle azioni della polizia, lo stesso Kılıçdaroğlu ha rinunciato a tenere i comizi previsti (ma è comunque andato in piazza, da “privato cittadino”). Il comunicato presidenziale invita «a essere aperti al dialogo, a dare ascolto a opinioni diverse; in un paese democratico le reazioni devono essere espresse in modo da non lasciar spazio agli abusi, con calma e buon senso»: parole concilianti, in contrasto con quelle di Erdoğan che anche domenica non ha risparmiato epiteti offensivi ai manifestanti – çapulcusaccheggiatori – in modo indiscriminato, senza fare troppe distinzioni tra proteste legittime e azioni di distruttiva ma episodica guerriglia. D’altra parte, l’Akp non ha mobilizzato i propri sostenitori (il premier aveva però annunciato contro-manifestazioni – e dieci volte più numerose! – se quelle del Chp avessero avuto luogo), che si sono limitati a invadere Facebook con immagini e slogan a favore del loro leader – büyük usta, grande maestro – e della polizia.

Un vero e proprio bilancio ufficiale non c’è: si parla di centinaia di feriti tra manifestanti e poliziotti, di migliaia di arresti, di due o tre morti però non confermati, di danni materiali provocati da dimostranti fuori controllo. C’è chi ha proposto un parallelo tra piazza Taksim e piazza Tahir al Cairo, scomodando la “primavera araba” che potrebbe diventare “primavera turca”: ma le due situazioni hanno davvero poco in comune; perché in effetti la “primavera turca” è in corso da un decennio, la graduale trasformazione della Turchia – innescata proprio dall’Akp – da regime autoritario a democrazia: lo ha fatto presente proprio stamattina Erdoğan, che in partenza per un viaggio in Marocco, Algeria e Tunisia ha ricordato in conferenza stampa come «in Turchia c’è già una primavera che qualcuno vorrebbe rovinare». Il processo di transizione verso una democrazia che si vorrebbe avanzata – e dagli standard europei – non si è però concluso: e la nuova costituzione, che secondo le promesse elettorali del 2011 avrebbe dovuto prendere rapidamente il posto di quella autocratica del 1982, è bloccata da veti incrociati sul presidenzialismo proposto dall’Akp e sull’impostazione nazionalista e laicista a cui il Chp e l’Mhp non vorrebbero rinunciare.

Nei fatti, la qualità della democrazia turca non è particolarmente elevata: grandi progetti – come quello che interessa il parco di Taksim – vengono decisi senza una pianificazione razionale, con troppe concessioni al cemento e scarsa attenzione al verde, senza informare in modo adeguato la popolazione e senza attivare canali di feedback verso le istituzioni. Il sindaco di Istanbul, l’architetto Kadir Topbaş, lo ha riconosciuto pubblicamente, esprimendo timori che la candidatura a ospitare i giochi olimpici del 2020 possa naufragare. Ma ha anche aggiunto che le operazioni al momento previste – l’abbattimento di due alberi, il trasferimento di altri dieci – riguardano solo l’allargamento dell’area pedonale e che nessuna decisione è stata definitivamente presa sul progetto complessivo della zona (un tribunale amministrativo ne ha bloccato l’iter proprio in questi giorni). Erdoğan, nelle sue esternazioni, ha contribuito a creare confusione: confermando la ricostruzione della caserma, ma smentendo la destinazione esclusiva a centro commerciale («vi si potrebbe realizzare un museo di Istanbul»); e ha anzi proposto in modo estemporaneo la distruzione dell’adiacente centro culturale Atatürk – dotato di teatro e altri spazi – per sostituirlo con un vero e proprio teatro d’opera e la costruzione di una moschea a ridosso della piazza.

In effetti, la pur presente sensibilità ecologista passa in secondo piano davanti alla guerra dei simboli (politici) che si è scatenata: perché piazza Taksim – il suo parco, il centro culturale che ha il nome del “padre dei turchi” – è percepito dalle fazioni kemaliste come l’incarnazione più visibile dei valori della repubblica laicista e nazionalista che l’Akp sta mettendo sempre più in discussione. La lista delle rimostranze si è allungata proprio negli ultimi due anni, dopo che l’ampio mandato elettorale – il 50% dei voti il 12 giugno 2011 – ha dato a Erdoğan legittimità e sfrontatezza: legge sull’insegnamento religioso nelle scuole, progressiva (ma ancora non completa) abolizione del divieto d’indossare il “velo” islamico per studenti universitarie e impiegate del settore pubblico, aumento della tassazione sulle bevande alcoliche e restrizioni sulla loro vendita, smantellamento dei rituali ufficiali appartenenti al regime autoritario kemalista, ridimensionamento del ruolo politico delle forze armate che di quel regime era il perno, avvio del processo di pace con il Pkk di Öcalan che secondo gli ambienti nazionalisti metterebbe a rischio l’unità del paese.

Queste rimostranze hanno poche speranze di trovare ascolto: da una parte, le forze politiche che le condividono sono minoritarie nel Paese; dall’altra, lo stile di governo adottato dal leader dell’Akp non lascia troppo spazio alle manifestazioni di dissenso. Le proteste di piazza Taksim in sostanza saldano diversi punti di vista: quello ecologista, originario e minoritario, che punta a preservare la città da alcuni progetti molto discutibili (ma tra costoro c’è anche chi dice no per principio ai progetti infrastrutturali invece indispensabili); quello più ampio ma sempre spontaneo di chi vorrebbe l’emergere di una democrazia autenticamente avanzata e partecipataquello ideologico delle forze politiche frustrate perché consapevoli di non poter diventare in tempi ragionevolmente brevi maggioranza: e che allora cercano la scorciatoia anti-democratica della piazza. La tenuta del governo non sembra al momento a rischio, ma solo un cambiamento di rotta – più democrazia, più libertà, più ascolto, più compromessi – potrà garantire all’Akp nuovi mandati per realizzare i grandi obiettivi di crescita, sviluppo, modernizzazione e pacificazione interna fissati per il 2023.

 

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