Crac Ilva, un’altra Montedison il peccato capitale dei Riva zero investimenti e prodotti low-cost
PRIMA ANCORA DEI GIUDICI E DELLA RECESSIONE, A CONDANNARE L’IMPIANTO È STATO UN IMPERDONABILE ERRORE DI PROGRAMMAZIONE, QUELLO DI PUNTARE SULLA FASCIA BASSA DEL MERCATO PER RISPARMIARE SUGLI IMPEGNI: LA CONCORRENZA CINESE E INDIANA HA AVUTO GIOCO FACILE
Marcello De Cecco (1938), economista
Dai molteplici segni che si leggono oggi, l’industria italiana dell’acciaio rischia di fare la fine di quella della chimica di base, scomparsa alla fine degli anni Settanta in un turbine di casi giudiziari, incertezze e liti politiche, in un contesto congiunturale mondiale tra i più sfavorevoli. Queste condizioni ci sembra si ripresentino tutte nel caso odierno dell’acciaio. Quando l’acciaio di stato fu privatizzato, a metà degli anni Novanta, una lunga fase congiunturale mondiale favorevole stava giusto aprendosi per l’industria siderurgica, che tuttavia avrebbe comportato grandiosi cambiamenti nella geografia globale della produzione e del consumo di acciaio. In un volume che pubblicai nel 2000, insieme a Massimiliano Affinito e Angelo Dringoli, sul tema delle privatizzazioni nell’industria manifatturiera italiana, un lungo saggio era dedicato alla privatizzazione dell’acciaio. Una tabella indicava quale fosse la distribuzione dei principali paesi produttori, nel mondo. La Cina vi appariva come produttore importante, ma dopo l’Unione Europea anche se prima di Giappone e Stati Uniti (1998), c’era inoltre la Russia. Confrontare quella tabella con un equivalente attuale vedrebbe l’esplosione della Cina come numero uno mondiale, con una produzione quattro volte superiore a quella del secondo classificato, il Giappone, e ancor più lontana dagli altri ex leader, ora divenuti inseguitori sempre più lontani. Ma mostrerebbe un buon numero di nuovi produttori di rilevanza mondiale come il Brasile, la Turchia (che ha già superato l’Italia) e parecchi altri come l’Ucraina, la Russia e l’India, che hanno incrementato la propria produzione assai più che i paesi dell’Europa Occidentale. Mostrerebbe anche il declino di paesi come Gran Bretagna, Francia e Belgio, storici leader del settore per duecento anni.
Come la Gran Bretagna
La collocazione della Cina rassomiglia oggi proprio a quella della Gran Bretagna all’inizio dell’Ottocento. Una vera rivoluzione è dunque avvenuta in quello che fu il settore principe dell’industrializzazione storica, per questo considerato assolutamente essenziale da tutti i paesi che volevano intraprendere uno sviluppo industriale. Dalle statistiche mondiali si nota come la decisione di avere un settore siderurgico moderno sia stata presa anche dai paesi di più recente industrializzazione e che nessuno abbia finora veramente abbandonato il settore, una volta giunto ad occuparvi un posto. Perché all’inizio di questo scritto, ho parlato dunque di previsioni infauste per la sopravvivenza della grande siderurgia in Italia? C’è innanzitutto una ragione globale, che deve essere considerata per prima: il settore, dopo una lunga corsa, ristagna dall’inizio della grande crisi, mentre in paesi come la Cina, ma non solo, è continuato l’ampliamento della capacità produttiva persino negli ultimissimi anni e si prevede di ampliarla ancora. Ma il consumo di acciaio, tradizionalmente, dipende dall’andamento di due settori, quello delle costruzioni sia di infrastrutture che di immobili industriali, commerciali e abitativi, e quello metalmeccanico. Il primo copre in Europa, ad esempio, il 35% della domanda di prodotti siderurgici, il secondo il 14%. In entrambi questi due settori chiave dell’industria mondiale si vedono al momento chiari segni di ristagno, e ne discende dunque quella capacità in eccesso per la siderurgia di cui s’è detto.
La sovracapcità
Ma queste ragioni di sovracapacità sono fortemente vere anche per l’Italia, sia perché le costruzioni, in particolare quelle edilizie, si sono fermate, sia perché la domanda interna ristagna e addirittura diminuisce anche per il nostro settore metalmeccanico, che è ancora il cuore industriale del paese. Ed è bene dire che di cuore industriale ce n’è, in Italia, solo uno, se si eccettuano edilizia e costruzioni. La capacità italiana di far quadrare la bilancia commerciale è assolutamente legata alla capacità della nostra industria metalmeccanica di restare competitiva sui mercati europei e mondiali. Il fermarsi della domanda di prodotti siderurgici nel mondo è stato abbastanza improvviso, per il persistere del boom asiatico e specie cinese, dopo l’arrivo della crisi. Ma in Europa la domanda di prodotti siderurgici ha ristagnato sin dall’inizio della crisi, e la capacità di mantenere posizioni da parte dei produttori siderurgici italiani, come d’altronde di quelli tedeschi, è dipesa in maniera essenziale dalla loro capacità di esportare in quelle parti del mondo, i paesi emergenti, dove la crisi ha colpito assai meno. Fino al 2012 hanno mostrato di riuscirci, ma alla fine dell’anno scorso anche quello sbocco ha mostrato segni seri di esaurimento. E la tendenza si è fatta più chiara e grave nei primi mesi di quest’anno. La crisi del principale produttore italiano, l’Ilva, che domina il nostro mercato e si colloca in buona posizione anche a livello mondiale, ha dunque coinciso con quella della siderurgia mondiale. Questo è necessario sottolinearlo prima ancora di affrontare i motivi che tutti si sentono ripetere sulla crisi dell’Ilva, quelli giudiziari dell’impianto di Taranto, che a un tratto si è scoperto essere seriamente inquinante (ed è invece una situazione che dura da anni), e della famiglia Riva, responsabile nel bene e nel male della gigantesca acciaieria tarantina. Sarà un caso, ma fino a quando l’acciaio è stato richiesto sul mercato interno e specie su quello internazionale, di entrambi questi problemi giudiziari si è parlato assai poco.
L’origine dei problemi
Eppure, si tratta di problemi che vengono da lontano. Quello ambientale addirittura precede la privatizzazione dell’Ilva ma è andato peggiorando col passare degli anni. E quello che potremmo chiamare economico- produttivo è tutto di responsabilità dei nuovi padroni dell’azienda. Dopotutto, la gestione Riva dura da quasi vent’anni. E’ stata una gestione fortemente innovativa, nei confronti della struttura dell’impresa e degli impianti che furono loro ceduti dallo Stato. Già nello studio sopra ricordato, che condussi con i miei colleghi nel 2000, si vedevano chiaramente, dopo cinque anni di gestione Riva, gli elementi fondanti della strategia che la governance privata dell’impresa e del suo massimo impianto aveva elaborato e stava mettendo in opera. Notammo infatti, nel nostro studio, che dal 1995 al 2000 innanzitutto gli investimenti fissi erano diminuiti rispetto agli anni delle gestione statale. Che la produzione invece era aumentata e che anche il rendimento dell’impresa era cresciuto per i suoi proprietari. Questo era stato ottenuto mediante una decisa riduzione del livello di sofisticazione della produzione dell’acciaieria di Taranto. I Riva sembravano decisi a massimizzare la quantità rispetto alla qualità, a volersi dunque dirigere verso prodotti sempre più tipici dei paesi nuovi arrivati nella produzione siderurgica, mentre i manager di stato, sull’esempio della siderurgia tedesca, avevano cercato di adottare la strategia opposta. Notammo, come segni di questa svolta, l’aumento degli operai all’Ilva dei Riva, che coincideva con la decisa riduzione dei quadri e dei dirigenti. Allo stesso tempo, nell’ambito degli operai, l’impresa riusciva a ridurre l’età media, e dunque anche i livelli salariali. Questa strategia, che serviva a produrre più prodotti di minor valore unitario, mediante incrementi di forza lavoro a basso livello di specializzazzione e eliminazione di quadri e dirigenti non più necessari date le produzioni più semplici, ha permesso all’Ilva di mantenere i costi, aumentare la produzione e le esportazioni, incrementare profitti e dividendi. Non è stata una prerogativa dell’Ilva, adottare questa strategia. Allo stesso tempo la sceglieva una buona parte della industria italiana, che per questo avrebbe pagato cara la crisi del 2008. Meno investimenti, produzione di scarso valore, basata su manodopera di non elevata specializzazione, esportazioni sempre più in concorrenza con paesi emergenti. Solo una parte abbastanza limitata ha invece seguito quella che potremmo chiamare la strategia tedesca, che si fonda su miglioramenti tecnologici continui, collegamento con i centri di ricerca del paese, forti investimenti, riduzione del personale mantenendo quadri e dirigenti dedicati al miglioramento tecnologico e alla massimizzazione delle esportazioni. Un solo esempio: l’Ilva non ha alcun legame col principale centro italiano di ricerca siderurgica. Il problema principale di questa strategia è che essa confligge, specie nel caso di produzioni naturalmente inquinanti, il cui impatto ambientale può essere ridotto solo con massicci investimenti, con il tentativo contemporaneo del nostro paese di ridurre il livello di inquinamento di origine industriale, mediante leggi proprie o adozione di leggi e regolamenti dettati dalla Unione Europea, che persegue gli stessi fini.
L’Ilva “stand alone” (in solitudine, diciamo così!!)
A Taranto questo conflitto si è manifestato con tale violenza da essere infine rilevato dalla magistratura, che deve fare rispettare le leggi nel frattempo approvate o i regolamenti Ue adottati. Allo stesso tempo, la magistratura sostiene di aver rilevato anche comportamenti, da parte dei proprietari dell’Ilva, di evasione delle regole fiscali e valutarie e di corruzione di pubblici dipendenti. Si è così giunti addirittura ad arresti multipli. Il paragone con le vicende, ad esempio, della Sir a fine anni settanta, diviene quindi assai cogente. Ed è questo ad averci fatto esordire in tono tanto pessimistico. Perché, come nel caso della chimica, la dirigenza politica del nostro Paese non mostra di essere per nulla desiderosa di affrontare problemi così complessi. Basta vedere, nel caso attuale, quanto tempo si è preso la politica per nominare un commissario per l’Ilva. E quanta leggerezza si sta dimostrando nei confronti dei comportamenti passati da parte dei controllori pubblici. Si lascia, come al solito, alla magistratura penale il compito di sostituirsi alle decisioni politiche. Salvo poi lagnarsi della invadenza dei giudici. Ma sarebbe veramente un male se, come si paventa, un produttore straniero comprasse l’Ilva? Di certo non è un male in senso assoluto, ma è probabile che lo diventi data la attuale sovracapacità europea e mondiale nel settore, specie in quello dei prodotti semplici che si fanno a Taranto. Chi compra l’Ilva, di questi tempi, non può sfuggire ai dettati del cartello europeo o mondiale dei produttori, che pare destinato a formarsi per amministrare i tempi duri e può preferire chiudere un impianto in Italia, anzichè uno al suo paese, anche se quello italiano è più competitivo.
Arrivano gli stranieri?
Aspettarsi che un produttore straniero si accolli i costi di una nuova strategia per l’Ilva è del tutto irrealistico, specie dopo l’esperienza che abbiamo fatto col produttore nazionale. Lo straniero, non potendo, se è vero quello che dicono i giudici di Taranto, continuare la politica di riduzione dei costi mediante inquinamento e vari tipi di reati fiscali e valutari, cercherà o di farsi massicciamente sussidiare la riconversione dell’impianto dallo stato italiano, o detterà le sue regole agli italiani, per ottenere il permesso esplicito di inquinare e violare anche le altre leggi. Purtoppo, la strategia quasi ventennale seguita dai Riva mentre le autorità preposte guardavano altrove, ha portato a questo, alla impossibilità di continuare a gestire l’impianto di Taranto in maniera competitiva e profittevole per la proprietà senza violare le leggi. Vale la pena ripeterlo: purtroppo questo è vero non solo per l’Ilva, ma per una parte non trascurabile dell’industria italiana. Il che comporta per le autorità amministrative e politiche, e quindi per tutto il paese, l’imperativo di fare quello che finora hanno rinviato e che gli economisti chiamano “scelte tragiche”, tra la produzione e l’occupazione di oggi e quella di domani, e la salute e il benessere di oggi ma specie di domani.
(03 giugno 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA