6 marzo 2013 ore 23:35 La società ancella dell’economiaLa società ancella dell’economia di Roberto Schiattarella MAGARI CAPIAMO QUALCOSA DELLA “CULTURA” IN CUI CI TOCCA RESPIRARE

 

DAL BLOG  “SBILANCIAMOCI”

 

La società ancella dell’economiaLa società ancella dell’economia   di  Roberto Schiattarella

 

 

 

L’effetto lungo del liberismo sulla cultura e sull’economia, analizzato attraverso due parolesimbolo: flessibilità e globalizzazione. Usate e abusate per negare un’autonomia della societàrispetto a presunte leggi economicheA partire dagli anni ottanta, la cosiddetta rivoluzione “liberista” ha improntato di sé la culturanon solo economica, riproponendo quell’approccio ingegneristico all’economia che neiquaranta anni precedenti era rimasto ai margini del dibattito. Un cambiamento che può essereconsiderato anche il modo in cui si è consolidato il retroterra ideologico indispensabile per il buonfunzionamento di un modello di sviluppo in cui i mercati finanziari stavano assumendo una nuovacentralità. L’idea di crescita economica che si è venuta affermando da allora ha fatto perno su un insiemedi convinzioni diventate pressoché indiscutibili sia nella comunità scientifica ufficiale, sia, e percerti versi soprattutto, a livello di “senso comune”. E cioè in primo luogo che il mercato dovesseessere considerato la sola istituzione capace di garantire lo sviluppo economico di lungo periodo.E dunque che non potesse esistere alcuna razionalità collettiva che potesse sovrapporsi ocontrapporsi alla razionalità espressa dal mercato. In questa visione lo stato non può svolgerealcun ruolo propositivo nello sviluppo economico se non quello di creare l’ambiente piùfavorevole possibile per mettere in grado il sistema privato di esprimere tutte le sue capacità disviluppo; e ciò attraverso politiche che devono essere le meno invasive possibili e devono crearele condizioni per il pieno realizzarsi di situazioni di concorrenza laddove queste non fosseroesistite. La seconda convinzione che ha guidato il buon senso di chi si occupava di economianegli ultimi trenta anni è stata che, per garantire una efficiente allocazione internazionale dellerisorse, i mercati dei capitali dovessero essere completamente liberati da ogni ostacolo sia allaloro mobilità che alla loro capacità di innovazione. La terza convinzione, infine, è stata che gliStati uniti dovessero essere considerati il modello di organizzazione economica al quale tutti glialtri paesi dovevano conformarsi, se volevano competere con successo sul piano internazionalecome sistema economico sociale.Ma le implicazioni profonde della rivoluzione liberista possono essere colte in maniera anche piùchiara se si riflette sul significato dei due termini che in qualche modo possono essere consideratii punti di riferimento del dibattito economico di questi anni e cioè “flessibilità” e“globalizzazione”. Termini tanto ricorrenti, quanto dal significato incerto e tutt’altro chescontato; termini che la letteratura e la pubblicistica hanno tentato di definire in molti modi, ancherelativamente diversi tra loro, ma che più che altro hanno assunto il ruolo di parole simbolo,evocative di un determinato approccio ai problemi dell’economia e, ancor di più, di un modo diintendere il rapporto tra la dimensione economica e quella non economica.Quando infatti si sono sottolineate le esigenze di “flessibilità” per il buon funzionamento deisistemi economici, quello che si è voluto affermare è che le ragioni di tipo sociale devono essereconsiderate meno importanti rispetto a quelle di tipo economico. In altre parole, attraverso questotermine si è voluta suggerire l’idea che la società non può opporsi, con le logiche che le sonoproprie, a quelle imposte dalle necessità economiche. In sostanza, parlare dell’esigenza diflessibilità vuol dire dare due cose per scontate. La prima è la completa autonomia delladimensione economica da quella sociale. La logica dell’economia è separata e diversa da quelladella società. La seconda è che se si vuole dar spazio a istanze di tipo sociale si deve sapereche si tratta di scelte che impongono costi in termini di minore efficienza. Dunque, se una societàsi pone come obiettivo la crescita economica non può che considerare le logiche della societàcome subalterne a quelle dell’economia. Con tutte le conseguenze sul pianoDocumento esportato da www.sbilanciamoci.info 1 di 2dell’organizzazione sociale che derivano dall’estraneità alla dimensione economica dei sistemidi valori che invece hanno rilevanza decisiva nel definire il modo in cui si organizza un corposociale. Il secondo termine simbolo è stato “globalizzazione”. Anche in questo caso, più che a unsignificato preciso quello a cui si è voluto far riferimento è stato a qualcosa di fortementeevocativo e cioè al fatto che la dimensione nazionale non può essere più considerata un punto diriferimento rilevante per chi si occupa di studiare e/o gestire i processi economici. Quando si èparlato di “globalizzazione” si è voluto mettere in primo luogo in evidenza il fatto che il ruolodello stato nel governo dell’economia non può essere significativo, perché la dimensionegeografica di riferimento si è enormemente ampliata e sono altri gli attori che possono giocare unqualche ruolo a questa dimensione più ampia (l’allusione, neanche troppo implicita, è alleimprese che operano sul piano internazionale, le multinazionali); e vuol dire, in secondo luogo,che lo stato, anche se non può essere il soggetto dello sviluppo, può invece diventare unostacolo allo stesso se non pensa la sua politica di intervento come uno strumento di sostegnoper i soggetti che si muovono, o si possono muovere a livello “globale” e cioè le imprese. Inquesta ottica lo stato non si deve tanto proporre di tutelare i più “deboli”, quanto quello disupporto per i più forti.La società, dunque, in questa visione, non solo deve adeguarsi, adattarsi alle regole imposte dauna crescente competizione internazionale, cioè le cosiddette “leggi” dell’economia, ma anchele istituzioni pubbliche possono svolgere un ruolo positivo solo nel momento in cui il loro agire simuove all’interno di logiche economiche e tendono ad assecondare le richieste che vengono dalmercato. Le regole che una organizzazione sociale si vuol dare, anche quelle fondamentali comele stesse costituzioni, se ci si pone in questa ottica, non possono essere in nessun caso in uncontrasto insanabile con la logica dell’efficienza che, essendo il presunto punto di riferimentodella cultura economica, non può che informare di sé anche la realtà sociale.Probabilmente non si è riflettuto abbastanza sugli effetti di una visione di questo tipo sugli equilibrisociali dei paesi avanzati, soprattutto nel più lungo periodo. Quello che è certo è che la politicadell’inclusione, che era stata l’asse portante nella costruzione delle democrazie dell’Europaoccidentale nel dopoguerra, ha finito col perdere di spessore. Da elemento cruciale di un progettodi convivenza civile si è trasformata in una politica che, in quanto costosa, può essere sviluppatasolo a determinate condizioni e in misura circoscritta. Sì

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