Giornalista
I maître à penser liberisti e la politica industriale
Ma il rilievo editoriale e la popolarità presso le elite possono di per sé ridare consistenza all’idea ottocentesca del laissez faire? Per conquistare consensi, è possibile sostenere (come hanno fatto Alesina e Giavazzi) che il liberismo sia di sinistra? Ne dubito. Si stupirà il borghese, ma poi? Al dunque, covare un uovo di destra in un nido di sinistra, perché di questo si tratta in termini di culture politiche, costituisce una scorciatoia buona soltanto a confondere le acque: non serve alla destra italiana per uscire con piglio europeo dal ventennio berlusconiano e non aiuta la sinistra a ritrovare sé stessa oltre i miti novecenteschi, pre e post privatizzazioni.
La Grande Crisi – e lo abbiamo visto nella campagna elettorale americana – ripropone al centro del dibattito politico il ruolo dello Stato nell’economia: se il governo debba limitarsi alla regolazione, la più blanda possibile, o se possa non solo regolare ma anche intervenire con incentivi e disincentivi e con l’assunzione di partecipazioni al capitale di talune imprese; più in generale, se tutte le attività dove si maneggia denaro debbano essere votate al massimo profitto o se esistano aree come la sanità, l’istruzione e la previdenza da gestire anzitutto come diritti di cittadinanza.
Questa contesa intellettuale è antica, ma nuovo è il contesto. La Grande Crisi mette in risalto la forza del capitalismo di Stato nelle economie emergenti. Si tratta di un capitalismo senza alcun riferimento alla cultura socialdemocratica e rooselveltiana, e spesso senza istituzioni politiche democratiche di tipo occidentale alle spalle. Eppure, esiste e dilaga, forte di radici culturali proprie, extraeuropee. L’energia, per dire del settore più delicato, è sottoposta al ferreo controllo dei colossi di Stato di Paesi autoritari. Stiamo a discettare se l’Eni debba essere privatizzato e meno, ma che cosa cambierebbe di fronte alla Saudi Aramco o a Gazprom? Meno di nulla.
In Occidente, la crisi ha esaltato la funzione dei governi quali prestatori di ultima istanza con le banche centrali ridotte a loro braccio secolare. Il debito del settore privato è stato compensato dall’aumento del debito della mano pubblica in quasi tutti i Paesi dell’Ocse. La ripresina americana è figlia di giganteschi finanziamenti pubblici. Ovunque la manovra sui tassi d’interesse è artificiale. Quali possano essere le conseguenze sui sistemi politici non è ancora chiaro. Le forze in precedenza predominanti e tuttora in sella cercano di non pagare dazio riproponendosi come l’architrave dell’unico modello possibile di capitalismo.
In realtà, il loro sedicente realismo offre una rappresentazione della realtà pesantemente manipolata. Con la demografia, la produzione, i commerci e le tecnologie attuali, non è in questione il capitalismo in sé come lo era nella critica marxiana, ma il modello di capitalismo – meglio, come direbbe Amartya Sen, la forma di economia di mercato – che si ritiene più utile al Paese. Ed è in questo quadro che va ridiscusso il ruolo dello Stato e del Governo.
Un esempio. Denunciare gli sprechi nell’incentivazione delle fonti rinnovabili per la produzione elettrica non basta a smontare l’idea stessa di politica industriale come pretendono Alesina e Giavazzi. Prima di loro, quando ancora si poteva fermare lo spreco, altri avevano mosso le stesse critiche suscitando le ire di ministri berlusconiani, associazioni d’impresa e di non pochi esponenti di una sinistra ecologista restia a far di conto. Ebbene, per quei primi critici – se posso dirlo, ero fra loro – la politica industriale non costituisce né un totem né un tabù, ma una serie di scelte da ponderare nel merito.
Quella politica di incentivazione era il frutto avvelenato di pressioni lobbistiche. Ma l’idea di incentivare la green economy se il mercato latita non è sbagliata di per sé. Da evitare sono gli incentivi più elevati dell’indispensabile e la loro destinazione verso attività che, a parità di costo per lo Stato, generino meno lavoro e più importazioni.
Il parziale recupero fiscale dei piccoli investimenti sugli edifici ha favorito la spesa dei privati per il risparmio energetico. L’Italia ha case migliori e ha fatto lavorare le imprese. Anche questa è politica industriale. Che cosa, questa, ha di sbagliato? Ma il vero chiodo fisso dei liberisti italiani è la Cassa depositi e prestiti ritenuta con sovrana ignoranza il fantasma dell’Iri. Ne propongono la privatizzazione dimenticando che la sua raccolta, effettuata dalle Poste, è garantita dallo Stato. Si angustiano se vara un fondo di private equity che interviene per ricapitalizzare le medie imprese in crescita restando comunque in minoranza e non considerano che questa iniziativa non impedisce certo agli altri private equity di fare meglio: le medie imprese sono 4-5 mila, c’è gloria per tutti.
Raccontano di una Cassa che ha partecipazioni nell’Enel e nelle Poste, mentre non le possiede più da anni. Dimenticano che il pacchetto Eni è un portage per il Tesoro e quello Generali è stato affidato in conto vendita dalla Banca d’Italia. La Cassa, certo, ha varato un fondo strategico che può investire in alcune grandi aziende, purché sane. E comunque gli interventi restano in competizione con il privato. Checché se ne dica, i mutui ai Comuni la Cassa continua a farli come all’epoca di Cavour.
Potrebbero essere di più? Certo. Ma non è la Cassa a lesinare. È il Patto di stabilità a fermare gli investimenti degli enti locali. Dà fastidio che la Sace sia pubblica e stia ora dentro la Cassa. Ma qual è il Paese che esporta di più? La Germania, mica il Regno Unito. E chi assicura il credito all’esportazione tedesca? La società specializzata della KfW, consorella della Cassa italiana. E in ogni caso niente impedisce alle banche e alle assicurazioni di fare credito alle esportazioni e garantirlo.
C’è libertà. La si usi. Se ce ne fosse bisogno, in linea di principio si potrebbe pure privatizzare la Sace. Ma questo non darà di per sé un servizio migliore. Come testimonia la lunga e triste storia di Telecom Italia, la madre di tutte le privatizzazioni sulla quale i liberisti tendono a tacere perché mette in croce la loro propensione verso l’economia del debito. Che senso ha voler scassare la nostra storia, anziché migliorarla, in nome di una purezza mercatista che nessuno in realtà pratica, a cominciare dagli Usa dove tuttora operano migliaia di aziende pubbliche di rooseveltiana memoria, finanziate per 2500 miliardi di dollari dal mercato a tassi fiscalmente incentivati?
L’ultimo argomento che i liberisti usano per contrastare il “mito neostatalista” è l’innovazione. Nel dopoguerra, dicono, bastava copiare l’America, e dunque la politica industriale poteva andar bene all’Italia dell’Iri, di Cuccia e di Agnelli. Ma, adesso che siamo nell’era dell’innovazione permanente, ve li immaginate quattro burocrati che s’inventano Facebook in una stanza dell’Iri? Purtroppo, quando si riduce a caricatura della storia, la foga polemica fa dimenticare come Facebook, Google e tutti gli altri Over the top operino su un’infrastruttura, Internet, che è stata promossa dalla Difesa e dalle Università americane con un’operazione di politica industriale classica. D’altra parte, la Cina ha sorpassato gli Usa nel numero di brevetti depositati in un anno. Vogliamo parlarne?
Forse, sarebbe più pertinente domandarsi come mai la privatissima Fiat investa in ricerca e sviluppo meno della semipubblica Volkswagen, e come mai la Montedison, che alla fine degli anni Cinquanta depositava 1600 brevetti l’anno, una volta aperta al mercato finanziario, abbia chiuso l’ufficio brevetti così come la Telecom privatizzata abbia smantellato lo Cselt. Ma così si passerebbe dalle prediche alla classe politica, meritevole di ogni censura e al tempo stesso inoffensiva, al confronto diretto con chi ancora tiene le chiavi della cassa. E allora meglio contrastare il concetto astratto di politica industriale. Non si rischia di farsi male, ma così non si aiuta il Paese e nemmeno si aiuta la destra italiana a diventare una destra europea.