Parlare da soli non è proprio mai stato un gran bel sintomo. Eppure oggi appare come una vera e propria vocazione, e vociferazione, nazionale, almeno a giudicare dagli immancabili “io non ti ho interrotto prima, ora non interrompere me” che costituiscono l’essenza degli ormai frustri talk show televisivi, detti anche dibattiti. Dalla spensierata “stand up comedy” al solenne discorso di fine anno del Presidente della Repubblica passo’ già un abisso: ma ora che Beppe Grillo (che eccelse nella prima e parodio’ il secondo) ha salito il Colle per incontrare Giorgio Napolitano la distanza e il dislivello si sono notevolmente ridotti.
Il monologo. Se non lo usasse soprattutto per esprimere dubbi, Amleto sarebbe il nostro nume protettore. Così preferiamo Girolamo Savonarola: la predica, il messaggio, il monito ma anche lo sfogo di auto-compianto, l’argomentazione indignata, la replica ad argomentazioni immaginarie, l’occupazione dello spazio acustico, fiera di sforare e incurante di quella risorsa della civiltà che consiste nel rispetto dei turni di parola. Ci sono anche monologhi che esortano al dialogo: altrui. Il malnato bipolarismo all’italiana ha ricevuto l’imprinting dal video di Arcore del 1994. Da allora l’interlocutore è considerato solo un avversario dialettico, ovvero un facitore di monologhi opposti. L’intervista che approfondisce, insinua dubbi, contrappunta il monologo nei tempi e nei temi è percepita come ” inginocchiata”.
Qualche tempo fa, il maestro Nicola Piovani in privato rivolgeva una domanda: “Ma come è che c’è sempre piu’ gente che va in tv a leggere?”. Si riferiva alle liste e alle letture di brevi testi degli ospiti di Fabio Fazio, ma anche agli interventi filati del quadernetto di Marco Travaglio, alla divisione del mondo in “rock” e “lento” declamata da Adriano Celentano fino a declamazioni attoriali di livello vario.