DAL CORRIERE.IT DI OGGI
IL RITRATTO
Hugo Chávez, l’ultimo dei caudillos
Era alla guida del Venezuela dal 1999, venerato da milioni di connazionali. Dal tentato golpe del 1992 all’asse con Castro
Non sono servite le veglie, le preghiere, i tweet angosciati della figlia prediletta, Maria Gabriela. Non è servito un ermetismo attorno alla malattia che ha ricordato i tempi del socialismo reale, e non quello da lui inventato, e battezzato come il più adatto al XXI secolo. Hugo Rafael Chávez Frias è appena morto a Caracas a 58 anni, ucciso da un tumore implacabile che lo ha colto un paio di anni fa, nel pieno della sua parabola politica. Era presidente del Venezuela dall’inizio del 1999, e si preparava a governare fino al 2019, avendo vinto le elezioni per la quarta volta appena lo scorso ottobre.
Hugo Chávez, quattordici anni al potere
Un regno, dunque, più che una presidenza. E ha voluto lui che finisse così, sovrano al potere fino all’ultimo sospiro. Persino dopo la nuova e disperata operazione a Cuba, sedato e attaccato al respiratore, Chávez non ha ceduto un grammo di potere. Avrebbe dovuto giurare sulla Costituzione lo scorso 10 gennaio, non ha potuto e la Corte Suprema del Venezuela, controllata dai suoi, si è dovuta inventare un escamotage legale per mantenerlo al potere e non dichiararlo inabilitato, com’era ovvio che fosse da tempo. Un onore dovuto a colui che è stato via via definito l’ultimo dei caudillos del continente, uno pseudo-dittatore, ma anche un padre della patria e il più grande paladino dei poveri.
Inventore di uno strano regime autoritario, fondato su tre pilastri: il petrolio, del quale il Venezuela è ricchissimo e gli ha garantito spesa sociale e quindi consenso; il militarismo, che lo ha visto arrivare alla carica di colonnello dei parà prima di darsi alla politica; e quel che resta del sogno marxista, con lo sguardo rivolto all’ultimo bastione, l’isola di Cuba, sul’altra sponda del Mar dei Caraibi. Il quarto e decisivo fattore sono state però le elezioni, che gli hanno dato piena legittimità democratica. Chávez le ha vinte tutte dal 1998 ad oggi, sia pur forzando al massimo il principio della divisione dei poteri, che in Venezuela da tempo esiste solo sulla carta.
Chávez in politica nasce con il piede sbagliato, quello del militare golpista. Ci prova nel 1992 ad abbattere il governo di Carlos Andres Perez, gli va male ma al momento di arrendersi ha un colpo di genio: chiede di andare in tv a spiegare perché l’ha fatto. Quel giovane ufficiale di 38 anni, macho e con lo sguardo da indio, che già sa guardare da professionista nella telecamera, si accomoda in galera ma prima fa sapere ai venezuelani che è un “per adesso”, perché prima o poi ci riproverà a cambiare un sistema marcio e corrotto. La gente se lo ricorda e sei anni dopo, libero e già nelle piazze per comizi, l’uomo dal basco rosso non è uno sconosciuto. Stravince nel 1998, promettendo di riscrivere la Costituzione. E ci riesce.
Chávez ha una buona oratoria e la faccia meticcia dei venezuelani poveri, che mai si era vista ai piani alti della politica; eppure alla prima uscita, più che il voto dei diseredati, attrae soprattutto quello di una borghesia urbana e progressista che non ne può più della corruzione. Non si definisce legato ad alcuna ideologia, e il richiamo al mito di Simon Bolivar, il libertador, l’eroe nazionale, è considerato innocuo e bipartisan. Tutto è intitolato a Bolivar, in Venezuela.
Ma sono sufficienti pochi mesi per capire che l’obiettivo di Chávez non è unire il suo Paese dietro ad una bandiera comune, ma rivoltarne il sistema politico, distruggere il passato e governare in nome del solo popolo, contro l’oligarchia e la borghesia. Lemma principale la divisione tra i suoi (i rivoluzionari, i nuovi, i puliti) e gli altri (presto ribattezzati gli squallidi). Usa la tv come mai nessuno aveva osato: in diretta riesce a parlare fino a cinque o sei ore senza fermarsi, canta, recita poesie, nomina ministri o li caccia in malo modo. E’ uno show unico al mondo.
Nei primi quattro anni di potere Chávez non indossa camicie rosse, né si definisce socialista. Dichiara la sua ammirazione per Fidel Castro e attacca gli Stati Uniti, punta sull’integrazione latinoamericana contro l’imperialismo yankee, ma non ne fa una questione ideologica. E’ un caudillo classico, più peronista che marxista. Ma solo fino al biennio 2002-2003, quando l’offensiva dei suoi avversari per eliminare l’anomalia Hugo fallirà, finendo per rafforzarlo. Nell’aprile del 2002, viene allontanato dal potere per due giorni in un goffo tentativo di golpe. Nei mesi successivi, dopo che Chávez annuncia di voler prendere il pieno controllo del colosso petrolifero statale Pdvsa, gli scatta contro la serrata dell’economia. Due mesi di paralisi, con sindacati e imprenditori uniti, fanno precipitare il Pil ma non il governo chavista, che resiste e poi reagisce con epurazioni di massa dall’azienda. Con i soldi del petrolio, sul quale ha ormai il controllo completo, Chávez lancia le missioni sociali. Crea un nuovo sistema sanitario per i poveri, e poiché sostiene che i medici venezuelani non vogliono andare a lavorare nelle favelas, ne fa arrivare 30.000 da Cuba, pagandoli a caro prezzo al governo castrista; annuncia la fine dell’analfabetismo; apre un sistema di distribuzione a prezzi calmierati di beni di primo consumo; sovvenziona tutto, dai frigoriferi ai regali di Natale per i bambini.
Chávez resiste ad un’altra spallata nel 2004, un referendum per revocarne il mandato, e radicalizza la sua rivoluzione, attraverso la nazionalizzazione di tutti i settori strategici dell’economia e colpendo con espropri molti proprietari terrieri e imprenditori non allineati. Revoca la concessione ad un network tv ostile, riducendo al minimo la voce dell’opposizione nei mass media. La sua personale guerra con il presidente colombiano Alvaro Uribe porta i due Paesi sull’orlo di una guerra. Gli Stati Uniti, amministrazione Bush figlio, accusano il Venezuela di appoggiare la guerriglia colombiana e il narcotraffico.
Chávez risponde con uno storico discorso all’Onu: “Sento odore di zolfo su questo podio, è appena passato Bush, il demonio!”. Dal re di Spagna Juan Carlos si becca un plateale “Perché non stai zitto?”, durante un vertice, mentre accusa alcuni dei leader presenti di essere servi degli Stati Uniti. L’ammirazione per Cuba diventa un ponte aereo di aiuti e petrolio, che poi si estende ad altri Paesi del continente dove vincono leader amici: Bolivia, Ecuador, Nicaragua. La stessa Argentina dei Kirchner diventa un Paese amico, e viene soccorsa quando non riesce a piazzare bonds sui mercati finanziari. Il brasiliano Lula ne è distante per stile e princìpi, ma lo difenderà sempre. La legittimità di Chávez prosegue attraverso il voto. Viene rieletto nel 2006 e 2012, dopo aver ottenuto – sempre attraverso un referendum vinto – il diritto a presentarsi tutte le volte che vuole.
Diventa un idolo per milioni di venezuelani, ai quali non offre una vita granché migliore ma che la sua retorica fa sentire cittadini e soggetti politici. In economia, il cosiddetto “socialismo del XXI secolo” riduce la povertà, ma crea un sistema paternalistico e assai squilibrato. Gli investimenti esteri fuggono dal Venezuela degli espropri, e il Paese diventa ancora più dipendente dal petrolio. Il controllo sui prezzi fa crollare la produzione agricola, e costringe il governo a importare di tutto. L’inflazione resta sempre a due cifre, il cambio nero arricchisce la finanza, la corruzione esplode. Ma Chávez è fortunato, perché per un decennio il prezzo del barile resterà a livelli che gli permettono di espandere la spesa sociale senza pensare agli equilibri di bilancio.
La malattia lo coglie impreparato nel 2011. Chávez conduce una vita sregolata, non si controlla, vive di eccessi, è un accentratore compulsivo. È costretto ad ammettere di avere un tumore solo quando non può più fermare le indiscrezioni, ma senza mai offrire dettagli. Ha il mito e la paranoia della segretezza, come il suo maestro Fidel Castro, e da lui vola per curarsi quando il parere di molti glielo sconsiglia: ha un tumore molto aggressivo e raro, e andrebbe trattato in ospedali più attrezzati e da medici più esperti. Affronta l’ultima campagna elettorale fingendo di essere completamente guarito, in realtà gonfio di farmaci per tenersi in piedi, e vince di nuovo. Ma la menzogna, la peggiore della sua vita, stavolta non dura nemmeno il tempo di insediarsi per la quarta volta alla presidenza.
Rocco Cotroneo 5 marzo 2013 | 23:34© RIPRODUZIONE RISERVATA
NOTA SUL GIORNALISTA
Roberto Cotroneo (Alessandria, 10 maggio 1961) è un giornalista, scrittore e critico letterario italiano.
Tra il 1985 e il 2003 lavora al settimanale L’Espresso, e per quasi dieci anni dirige le pagine culturali, firmando una rubrica di critica letteraria “All’Indice”. È stato inviato del settimanale e poi commentatore per Panorama, l’Unità, Il Sole 24 Ore. Dal febbraio 1988 alla fine del 1989 ha scritto sulla pagina domenicale de Il Sole 24 Ore allora curata da Armando Torno. Firmava le sue recensioni con lo pseudonimo di Mamurio Lancillotto, il vicario criminale del 600 che processò la Monaca di Monza. È stato per alcuni anni conduttore della Mezzanotte di Radio Due, e nel 2010 ha condotto il programma de La7 La 25ª Ora. Dirige la Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss di Roma la Luiss Writing School, la Luiss Master of Art e la Luiss Master of Music. Tiene una rubrica settimanale su Sette del Corriere della Sera, Blowin’ in the Web, ed è il critico letterario de Il Messaggero.