3 gennaio 2013 ore 11:24 “27 GENNAIO 2012: GIORNO DELLA MEMORIA”—RACCONTO DI DONATELLA D’IMPORZANO.

Il Klezmer è un genere musicale di tradizione ebraica.  Il Klezmer contribuirà non poco alla formazione del jazz, quando gli ebrei che erano stati perseguitati si trasferirono in molti nelle Americhe. ( Gershwin).

 

 

campo di concentramento, mariobardelli.

 

 

 

 

 

27 gennaio 2012: Giorno della memoria – racconto di Donatella D’Imporzano

 

Le due amiche, Donatella e Chiara si erano riviste sabato 28 a Sanremo, dopo qualche settimana di lontananza perché Donatella abitava a Milano, felici di stare un po’ insieme: si erano sempre telefonate, certo, ma parlarsi di persona è tuttaltro modo di comunicare. Si erano sedute ad un bar: secondo abitudini consolidate, Chiara aveva ordinato la solita acqua minerale liscia e Giulia il solito Campari shecherato con gin.
Dopo notizie e chiacchiere varie, Donatella inizia a raccontare il film che la terza rete aveva trasmesso la sera precedente, in occasione del giorno della memoria e che Chiara non aveva visto. Si trattava del film “ Il lettore” (“The reader”, Usa-Germania, 2008).

La storia ha inizio nella Germania dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando  Michael Berg, un adolescente, si sente male e viene aiutato ad arrivare a casa da Hanna, un’estranea  che l’aiuta. Michael si riprende dalla scarlattina e cerca Hanna per ringraziarla. Così, i due –nonostante la grande differenza d’età- rapidamente rimangono coinvolti in una relazione segreta e appassionata. Un giorno Hanna scompare misteriosamente, lasciando Michael confuso e addolorato. Otto anni più tardi, mentre Michael è uno studente di legge che assiste ai processi per i crimini di guerra nazisti, è sconvolto nel veder tornare Hanna nella sua vita, questa volta come imputata in tribunale. Si tratta del processo a diverse kapò accusate di avere lasciato morire  dei bambini ebrei, che stavano deportando, in una chiesa in fiamme, dove li avevano chiusi per la notte. Hanna si lascerà condannare accusata dalle altre di essere stata lei a scrivere il verbale dell’accaduto. Alla fine del film, quando Michael scopre che lei non avrebbe potuto farlo perché analfabeta e va nella prigione per dirlo, gli riferiscono che Hanna si è impiccata nella notte stessa.

 

“E’ un film – disse Donatella- che, pur parlando della Schoà come “male assoluto”, lascia intravvedere nei colpevoli (Hanna) un’umanità consapevole dell’orrore di cui è responsabile in prima persona. Lancia cioè uno sguardo “dall’altra parte” e questa è una vera novità: anni fa un film del genere sarebbe stato impossibile.”

Chiara aveva, invece, assistito ad una trasmissione televisiva su canale 7 alle 20, 30, sempre per celebrare  il giorno della memoria: un’intervista fatta da Lilli Gruber al rabbino capo di Roma; era presente una storica  dell’olocausto di cui purtroppo Chiara non ricordava il nome.  Entrambi, sebbene con più sofferta convinzione da parte del rabbino, erano d’accordo sulla “sacralità”  dell’Olocausto, anche se  la studiosa poneva timidamente dei dubbi sull’uso di un termine che richiamava, come era naturalmente per la comunità ebraica di cui il rabbino era rappresentante, una realtà ultraterrena. Chiara era rimasta profondamente colpita dalla sofferenza che traspariva dalle parole, pur molto asciutte, del rabbino Di Segni in tutto quello che diceva, ma specialmente nel ricordare una visita della loro comunità ai campi di concentramento. Per noi è impossibile anche immaginare cosa deve essere stato per loro e cosa deve essere tuttora, pensò.

 

La parola “sacralità”, a noi che parlavamo lì nel bar, parve eccessiva come tante altre espressioni molto ripetute: “Dopo Auschwitz Dio è morto” e “Non c’è genocidio comparabile a quello della Schoà perché mai la strage di un popolo venne così raffinatamente programmata. Per questo segna un confine nella storia dell’umanità occidentale dal quale non c’è “oltre”. “.

 

A noi che già da tempo discutevamo queste affermazioni, vennero in mente, invece, altre stragi, anzi ci pareva che era tutta la storia dell’uomo a grondare di  sangue da cui, si poteva dire, che ogni volta non c’era stato “oltre”.

“Perché mai- diceva Donatella – vedendo il Colosseo, dove migliaia di persone erano state uccise per il divertimento di altre, non si sentiva lo stesso orrore che invece si provava visitando i luoghi di quella strage così vicina a noi nel tempo e nello spazio? Probabilmente era proprio questa vicinanza che ci faceva stare male, ma forse ancora di più perché l’orrore era nato nel centro dell’Europa, culla della civiltà dell’Occidente, e ancor più in una nazione come la Germania, che aveva dato al mondo tanti artisti, scrittori, filosofi. Forse per questo pareva a molti che tutta la civiltà fosse stata colpita a morte”.

 

Ma di nuovo sorgevano dubbi espressi questa volta da Chiara: “Il popolo degli Armeni, che il governo turco ha incamminato nel deserto chiamandola “deportazione”, quando erano invece già –dal governo dei Giovani Turchi- destinati a morte certa e terribile: questo non era forse una pagina della nostra storia che comunicava qualcosa di definitivo sulla nostra umanità e i nostri valori?”,
“E i gulagh di  Stalin, tutti gli eccidi di massa ed  individuali – incalzava Donatella tutta infervorata- l’assassinio di una intera classe sociale, i kulachi (i cosiddetti contadini “ricchi possidenti”, quando per definirli tali era sufficiente l’utilizzo di un operaio agricolo per una parte dell’anno, il possesso di macchine agricole, installate dal governo, poco più del semplice aratro, due cavalli e quattro mucche).

Anche se i documenti dagli archivi russi vengono alla luce poco per volta, dagli storici è stimato che, quantitativamente parlando, l’epoca di Stalin sia riuscita a duplicare i sei milioni di Ebrei morti per mano dei nazisti”.

“I cosiddetti  “Kmer rossi” in Cambogia- va avanti Donatella, ormai sarebbe stato impossibile fermarla- secondo gli storici, in soli quattro anni di potere hanno ucciso oltre due milioni e mezzo di persone.

Perché tutte quelle altre infinite stragi di innocenti, certamente non lasciate al caso – concludeva Do- non avevano avuto lo stesso marchio di sacralità?“

A questo punto della conversazione Donatella si ricordò della visita che anni prima, prima dell’unificazione delle due Germanie, aveva fatto al campo di Buchenwald.

“Era una giornata grigia, fredda. La comitiva dei visitatori era stata precedentemente  a Weimar, poco distante dal campo. La guida italiana ci disse che Buchenwald vuole dire “Foresta di faggi”, la stessa in cui era solito recarsi Goethe sostando a leggere e comporre sotto un albero che ancora esisteva sulla piccola collina che avevamo davanti.
Una volta saliti sull’altura, vedemmo dall’altra parte una buca sterminata, un imbuto che ricordava l’ inferno dantesco: era la fossa che i prigionieri dovevano scendere e salire senza fermarsi portando grosse pietre; chi si fosse fermato per lo sfinimento, scivolato o caduto sarebbe stato subito ucciso.

Nell’enorme spazio del lager, che si estendeva oltre la fossa, non si vedeva un filo d’erba, come se la natura stessa non avesse superato quello strazio, prova vivente che dall’odio non può nascere niente. Le baracche di legno, dove un tempo tanti uomini e donne avevano sofferto fame freddo paura e malattie, erano state eliminate quasi tutte dopo la liberazione lasciandone solo qualcuna per testimonianza. Le camere a gas erano state distrutte, mentre l’industria chimica tedesca che aveva prodotto il mortifero gas Zyclon, era ed è ancora oggi  tra le più importanti della Germania .


C’erano invece ancora i forni, le camere dove erano torturati i prigionieri e il tronco scuro e morto di quello che una volta era stato un albero. Lì venivano impiccati quelli che tentavano di fuggire a monito per tutti.
In un grottesco “museo” c’erano accatastate migliaia di scarpe, appartenute ai prigionieri: molte erano di bambini. In un angolo ammassi di capelli rasati, su uno scaffale un paralume in pelle umana.
L’angoscia era il sentimento che ognuno di noi provava: si vedeva dalle facce sconvolte e grigie, dalle voci naturalmente abbassate, che bisbigliavano tra loro, quasi per rassicurarsi di essere ancora vivi e di potere uscire da quel luogo infernale. Eravamo tutti convinti che era necessario e doveroso che quelle testimonianze rimanessero per sempre, perché l’orrore passato potesse impedirne altri.

In quel momento però mi chiesi – Donatella parlava adesso con un pianto soffocato ma continuo – come poteva il sole sorgere tutti i giorni su quelle atrocità, le stagioni alternarsi indifferenti, la terra non ingoiare quello che di più orrido il genere umano aveva concepito?

Uscimmo tristi dal lager, che all’entrata portava scritto in tedesco “ A ciascuno il suo”. Era un ulteriore  sfregio all’umanità, perché quella citazione era, invece,  di fatto lo stravolgimento delle parole del diritto romano.
All’uscita notammo un piccolo box che non avevamo notato all’entrata. Si trattava di una zona di ristoro, messa evidentemente da chi aveva la custodia del campo. Entrammo per prendere qualcosa di caldo in tutto quel gelo esterno ed interno e trovammo il nostro autista tedesco, che ci  fornì “una vivente rappresentazione” di un certo essere umano…: Un piatto di portata davanti, una costata enorme quasi cruda, se la portava alla bocca con straordinaria voracita’, incurante del luogo e di ogni significato.

 

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4 risposte a 3 gennaio 2013 ore 11:24 “27 GENNAIO 2012: GIORNO DELLA MEMORIA”—RACCONTO DI DONATELLA D’IMPORZANO.

  1. nemo scrive:

    Sono certo che l’ immagine della ‘assuefatta’ insensibilità dell’ autista, che ‘chiude l’ emozionato ed emozionante e coinvolgente’ racconto di Donatella, non voglia ‘esaltare’ un triste, ingiusto e inammissibile ‘pregiudizio’ verso i tedeschi che – più di noi stessi italiani – condannano ( e diffondono la cultura della condanna ) l’ orribile, atroce e ‘irriscattabile’ delitto verso l’ umanità compiuto dal nazismo e dal fascismo.

    • Chiara Salvini scrive:

      CARO NEMO, intanto auguri a te e alla tua bella di ogni cosa…”bella”, so quanto “il bello” abbia per te una ragione di vita, ma ti voglio ringraziare del tuo commento, a cui non sarei arrivata, perché mi permette una precisazione importante: mi pare che il racconto, alla fine, dica qualcosa del tipo “una visione di un certo tipo di essere…” e cioè di tutto il genere umano, anche se puo’ non essere stato chiaro. Tanti anni fa ho avuto il privilegio di parlare a lungo con una persona, che anche tu conosci e che chiamerò Matilde. Il padre, tedesco, mi pare prussiano, era ambasciatore in Italia durante il regime hitleriano. Lei ha assistito alla profonda “crisi” di suo padre alla fine della guerra, la terribile colpa che si addossava, così ricordo io del suo racconto di parche parole, è una persona riservatissima. Invece si è dilungata più a lungo, anche se posso ripetere a cenni, sono passati parecchi anni, sulla “maturazione-lavoro” che ha caratterizzato il popolo tedesco: c’è stata un’assunzione delle proprie reciproche responsabilità (anche in relazione ai rivoluzionari del periodo cosiddetto “della Repubblica di Weimar”, a seguito della rivoluzione russa del ’17). Diciamo che la Germania ha potuto formarsi “una coscienza nazionale unitaria” che ha permesso, tra l’altro, la riunificazione delle “due Germanie”. Questo, come sai, è il contrario di quanto avvenuto in Italia: qui da noi, come sai, le divisioni tra due parti contrapposte/ dalla “guerra civile” – rinnovate nel Sessanta-Settanta / permangono ancora oggi nella coscienza degli italiani. Non credo di dover aggiungere che, se così non fosse, Berlusconi non avrebbe potuto vincere sempre all’insegna della “lotta ai comunisti” (chiaro appello ad un “mito radicato” perché- in realtà- i comunisti, dopo Occhetto, li vedeva solo lui!) Conosco bravissime persone, rassegnate a Fini (parlo di anni fa), ma che non resistono a dire che “allora era tutto diverso…a cominciare dai famosi treni in orario”. Un altro, persona importante, mi dice che Mussolini è stato l’unico uomo politico che ha tentato di “raddrizzare la schiena agli italiani”; altri hanno la suoneria “faccetta nera” nel telefonino e ne sono fieri ecc ecc. A 150 anni dell’Unità d’Italia siamo un popolo estremamente diviso, non solo tra fascisti e comunisti (due etichette di comodo, tanto per capirci), ma anche tra centro- nord e meridione. Anche sulla “questione meridionale” ci si è accontentati di alcuni slogan senza voler cercare studi di storici illustri: penso, tra i tanti, ad Emilio Sereni, padre dell’attuale deputata PD, (Il capitalismo nelle campagne, PBE 1968). Nel primo capitolo di questa ricerca storica eccellente, mette all’origine della cosiddetta “questione meridionale” (per quel pochissimo che ricordo): 1. il formarsi di un mercato nazionale in cui il sud aveva la principale funzione di ricettacolo delle merci prodotte dall’industria al nord; 2. l’appropriazione dei beni giganteschi della chiesa (la cosiddetta manomorta) che portata al nord ha permesso-aiutato la prima vera rivoluzione industriale italiana (grossi capitali) della seconda metà dell’Ottocento, anche se già nella prima metà qualcosa era stato avviato, come del resto in tutta l’Europa, fuori l’Inghilterra che ne è stata il modello. Il mio è una specie di sfogo, anche se -data l’ignoranza- dovrei star zitta- ma è dagli anni Cinquanta che non ne posso più di sentir parlare male dei meridionali, qui a Sanremo era tutto un fiorire di maledizioni, grazie al cielo non nella mia famiglia! Prometto però di documentarmi sulla questione meridionale per non dire più sciocchezze!
      Mi dirai, e allora? Se fossi capace della tuo pensiero sintetico: grazie dell’avvertimento, ci hai dato un aiuto, siamo completamente d’accordo con te!

    • Chiara Salvini scrive:

      Caro Nemo, l’autista, che del resto è esistito nella testimonianza che racconto, poteva essere di qualsiasi nazionalità. Per me, lui (ma potrei esserci io al suo posto o essere lui stesso di qualsiasi altra nazionalità) è un po’ diventato il simbolo della storia che scorre e che comunque sia, va avanti: altrimenti non potremmo sopravvivere. Tutti noi viviamo malgrado tutte le brutture che sono state perpetuate, magari in quello stesso luogo in cui abitiamo. Lì poi era quasi impossibile non accostare l’attualità del gesto normalissimo ma in qualche modo “ cruento” ( da cruor= sangue) all’immane” crudeltà” di cui quel posto era stato testimone. Quando ero lì a Buchenwald, il sentimento più forte che ho provato era il desiderio che tutto fosse annullato, incapace di comprendere che dopo tutto ciò il sole continuasse a sorgere e così la notte nei loro ritmi naturali, come se niente fosse successo. Anche se per me “l’olocausto è dappertutto” nella storia, capisco la “sacralità” che gli viene attribuita, non solo perché è molto vicino a noi e abbiamo conosciuto delle persone che ne erano state le vittime, ma anche perché è stato il primo a potere essere testimoniato con foto e filmati che ci hanno -direi- annichiliti. Donatella

  2. nemo scrive:

    Sì, condivido. Si sa, ‘la vita continua’ …. ( l’ importante è non dimenticare )

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