Pink Floyd
Il lato oscuro della Luna
di Filippo Neri
Nei primi anni 60 sono stati tra i più coraggiosi esploratori delle nuove frontiere “lisergiche” del rock. Nel decennio successivo hanno smesso i panni della band di culto, ma hanno continuato a realizzare album memorabili. Poi, i dissidi interni e l’inizio della parabola discendente. Ecco la storia, le metamorfosi e i dischi dei Pink Floyd, una delle formazioni più importanti (e influenti) della storia del rock
Piper At The Gates Of Dawn (Capitol, 1967) | ||
A Saucerful Of Secrets (Capitol, 1968) | ||
More (Capitol, 1969) | ||
Ummagumma (Capitol, 1969) | ||
Atom Heart Mother (Capitol, 1970) | ||
Meddle (Capitol, 1971) | ||
Relics (anthology, Capitol, 1971) | ||
Obscured By Clouds (Capitol, 1972) | ||
The Dark Side of The Moon (Capitol, 1973) | ||
Wish You Were Here (Capitol, 1975) | ||
Animals (Capitol, 1977) | ||
The Wall (Capitol, 1979) | ||
The Final Cut (Capitol, 1983) | ||
A Momentary Lapse of Reason (Columbia, 1987) | ||
Delicate Sound of Thunder (live, Columbia, 1988) | ||
The Division Bell (Columbia, 1994) | ||
Pulse (live, Columbia, 1995) | ||
Is There Anybody Out There? (EMI, 2000) | ||
Echoes (antology, Capitol, 2001) |
I Pink Floyd sono i pionieri della psichedelia e uno dei massimi complessi rock di sempre. Nel corso di una carriera lunghissima (in cui si distinguono tre fasi, corrispondenti ad altrettante formazioni) hanno spostato i limiti del pop e del rock sposando l’elettronica e approfondendo la ricerca sonora in una serie di album giudicati pietre miliari della musica popolare del Novecento. Altra loro peculiarità è quella di aver prodotto mastodontiche rappresentazioni multimediali della propria musica attraverso spettacoli in cui la componente visiva è parte integrante di quella sonora.
La lunga storia della formazione inglese ha inizio a metà degli anni Sessanta, quando tre studenti di architettura e un estroso studente di pittura gettano le basi per entrare a pieno titolo nella leggenda del rock, partendo dai club della Londra underground e lisergica per arrivare, non senza radicali cambiamenti di stile e di formazione, al successo planetario.
La band nasce dall’incontro dello studente di pittura Roger Keith Barrett (per tutti Syd, nato il 6/1/46 a Cambridge) con Roger Waters (Great Bookham – 9/9/44), studente di architettura e chitarrista di una formazione dal nome cangiante (Sigma 6, T-Set, Meggadeaths, Abdabs) nella quale suonavano altri due aspiranti architetti: Nick Mason (Birmingham – 21/1/45) e Rick Wright (Londra – 28/7/45) oltre al bassista Clive Metcalf e ai cantanti Keith Noble e Juliette Gale. Nel ’65, dopo lo scioglimento del gruppo, Waters (al basso), Barrett (chitarra), Wright (tastiere) e Mason (batteria) decidono di formare una band (per brevissimo tempo ne farà parte anche il chitarrista Bob Close): il nome, scelto da Barrett, è Pink Floyd e deriva dai nomi di battesimo di due bluesmen americani, Pink Anderson e Floyd Council.
Nel ’66 arriva il momento delle prime esibizioni nei club della Londra underground, con un repertorio che comincia ad assumere una propria identità grazie alle prime composizioni strumentali di Barrett. E’ in questo periodo che i Pink Floyd conoscono quelli che diventeranno i loro manager: Andrew King e Peter Jenner.
Nella “Swingin’ London”, i Pink Floyd riescono a farsi notare come una delle band più originali e imprevedibili, in virtù soprattutto delle esibizioni all’Ufo Club, un locale in cui il gruppo sperimenta i suoi primi coinvolgenti light-show, tentando di coinvolgere il pubblico con proiezione di immagini, diapositive e l’impiego massiccio di un efficace impianto luci.
A cavallo tra il ’66 e il ’67, i Pink Floyd entrano in sala d’incisione, per i primi demo, con risultati poco incoraggianti: bisognerà attendere ancora qualche mese, infatti, per la pubblicazione del primo singolo del complesso, “Arnold Layne/ Candy and a Currant Bun” (prodotto da Joe Boyd).
Il successo arriva immediato ed è seguito a breve distanza da un secondo singolo-hit, “See Emily Play/ The Scarecrow”: la band partecipa per ben tre volte consecutive a “Top of the Pops” ed è finalmente pronta per il primo album, pubblicato nell’estate del ’67: The Piper at the Gates Of Dawn. Il disco, prodotto da Norman Smith, si impone subito grazie al sound particolare e assolutamente innovativo e a testi singolari, divisi tra atmosfere oniriche e spaziali (“Astronomy Domine”, “Interstellar Overdrive”) e brevi filastrocche per le quali Barrett attinge al mondo delle fiabe (“The Gnome”, “The Scarecrow”, “Lucifer Sam”).
“Astronomy Domine” è il resoconto di un viaggio stellare intrapreso da Barrett attraverso l’uso dell’Lsd: il basso pulsante rappresenta la connessione radio con la terra, mentre la chitarra onnipresente, insieme a un canto maestoso e solenne, sembrano errare in un panorama cosmico oscuro, con il drumming forsennato di Mason, a enfatizzare le parti più drammatiche.Il capolavoro del disco, e forse anche l’apice della produzione di Barrett, è però: “Interstellar Overdrive”. E’ la cronaca di un viaggio umano nell’universo. Introdotta da un riff da film dell’orrore, si sviluppa nei suoi undici minuti seguendo una sola regola: almeno uno strumento deve mantenere il ritmo. E sopra questo ritmo, si sviluppa una jam session acidissima, fatta di astronavi che sfrecciano, di asteroidi che si scontrano, di alieni e alienazioni, di muri spaziali, di tempeste stellari, di quiete cosmica, di paradisi irraggiungibili. Ma Barrett è anche un maestro nel raccontare filastrocche, come “Lucifer Sam”, sorta di proto-hard rock, con un riff incalzante, accompagnato da tastiere che sembrano richiamare una atmosfera orientale, “The Scarecrow”, basata su due nacchere e su un canto allucinato, e la gag comica in stile “freak” di “Bike”. I lunghi viaggi “acidi” e le atmosfere scanzonate, uniti a una sonorità articolata, nata dall’unione di influenze diverse ma sempre del tutto unica e peculiare, permettono al disco di essere tutt’oggi uno dei lavori universalmente più amati del quartetto. In seguito a questo successo, ormai lanciati verso una folgorante carriera, i quattro partono per gli Stati Uniti in tour, ma è proprio qui che conosceranno le prime difficoltà.
Barrett, infatti, comincia a manifestare i sintomi della schizofrenia (causata molto probabilmente dall’assunzione sistematica di Lsd), assentandosi sempre di più dalla vita del complesso: gli spettacoli dal vivo si fanno insostenibili, così come la pressione che il mondo della musica esercita su quella che è ritenuta, a ragione, la mente creativa del gruppo.
La band opta allora per una soluzione di compromesso, con l’ingaggio del chitarrista David Gilmour (già amico d’infanzia di Barrett e Waters, nato a Cambridge il 6/3/1946), il quale, secondo i progetti del management, deve sopperire alle mancanze di Barrett (che comunque resta nelle vesti di autore) nei concerti. I singoli “Apples & Oranges” e “It Would Be So Nice” non replicano i successi precedenti e gli atteggiamenti bizzarri e imprevedibili di Barrett cominciano a minare l’attività del gruppo.Le precarie condizioni psichiche portano il leader a un impenetrabile autoisolamento e a un progressivo allontanamento dalle scene musicali, non prima della difficoltosa produzione di The Madcap Laughs (gennaio 1970) e Barrett (novembre 1970), due eccellenti album solisti realizzati con l’aiuto di Gilmour e Wright.
Il nuovo manager dei Pink Floyd diventa Steve O’Rourke. E i quattro superstiti non si perdono d’animo e rientrano in studio per incidere il loro secondo album: A Saucerful Of Secrets.
Figlio del periodo di instabilità, il lavoro non lesina buone intuizioni, in particolare con la title-track che, come avrà modo di affermare Waters qualche anno più tardi, sembra la trasposizione musicale della parabola artistica dei Pink Floyd, con un inizio governato dall’istinto e un finale stupendo per ordine e limpidezza. Sono quasi dodici minuti di audace avanguardia psichedelica, che alternano terrore e misticismo. E’ proprio il bassista a firmare gli altri brani trainanti del disco come l’iniziale raga tribal-psichedelico di “Let There Be More Light”, la misteriosa e affascinante “Set the Controls for the Heart of the Sun”, capolavoro della musica cosmica, e “Corporal Clegg”, che mantiene un più saldo legame con lo stile dell’album d’esordio. C’è spazio anche per due composizioni firmate da Rick Wright (“Remember a Day” e “See Saw”), che per tutta la durata dell’album appare notevolmente ispirato, contribuendo non poco al sound onirico che lo pervade. Il disco si completa con una composizione di Barrett, “Jugband Blues”, un piccolo bozzetto delirante, in cui il chitarrista si dimostra perfettamente conscio del suo stato di isolamento mentale, declamando versi che, letti a posteriori, sembrano voler rispondere in anticipo all’album che i quattro gli dedicheranno qualche anno dopo.
Complessivamente, comunque, A Saucerful of Secrets appare segnato soprattutto dal chitarrismo di David Gilmour, che riporta la musica del gruppo verso territori più ancorati alla tradizione rock-blues.
Il 69 è un anno frenetico, dal punto di vista artistico, per i Pink Floyd: il complesso si cimenta infatti nello sviluppo di due suite da proporre negli spettacoli dal vivo come “The Man” e “The Journey”, e tenta il primo vero approccio con l’arte cinematografica scrivendo la colonna sonora per il film di Barbet Schroeder, More, a cui si aggiungono quelle per “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni e “Music From The Body” di Roy Battersby, quest’ultima a nome del solo Waters.
More, in particolare, è forse uno dei dischi più sottovalutati della produzione floydiana, straordinariamente coeso e delicato, con brani che fanno da scenario alle atmosfere del film uniti da una disarmante semplicità melodica. Da ricordare, fra tutti le composizioni, le brevi e acustiche “Cirrus Minor”, “Green Is the Colour” e “Cymbaline”, oltre alla minisuite “Main Theme”, che sembra ricordare la parte centrale della precedente “A Saucerful of Secrets”.
Alla fine del 1969, i quattro pubblicano anche il monumentale Ummagumma, destinato a essere annoverato tra i loro capolavori. L’album si compone di due parti: una registrata dal vivo, in cui il gruppo ripercorre i primi successi, e una in studio, formata dal contributo che i quattro musicisti hanno fornito da “solisti”, con composizioni sperimentali incentrate sui rispettivi strumenti. E’ Wright ad aprire il disco con “Sysyphus”, una suite strumentale che mescola musica classica e avanguardia. Waters si cimenta in due brani: l’acustica “Grantchester Meadows” (tra chitarre folk ed effetti di uccellini elettronici) e “Several Species of Small Furry Animals Gathered Together in a Cave and Grooving with a Pict”, composizione prettamente noise che simula i rumori degli animali nel bosco; mentre Gilmour ci regala un saggio di bravura tecnica alla chitarra con la sua più meditata “The Narrow Way”. Il disco è concluso da Mason con un ambizioso pezzo strumentale (“The Grand Vizier’s Garden Party”), guidato, ovviamente, dalle percussioni. Nel disco dal vivo, brillano le versioni espanse di alcuni loro cavalli di battaglia (da “Astronomy Domine” a “Set The Controls For The Heart Of The Sun”) e una delirante versione di quella “Careful With That Axe Eugene” che accompagna l’indimenticabile la scena finale di “Zabriskie Point”. L’anno successivo vede i Pink Floyd cimentarsi con una nuova lunga composizione strumentale al quale verrà dato il curioso nome di lavorazione di “The Amazing Pudding”. Negli intenti del gruppo il nuovo lungo pezzo dovrà stupire il pubblico, con effetti orchestrali senza precedenti nella loro produzione. Per le parti orchestrali viene chiamato il musicista scozzese Ron Geesin, al quale viene affidato il compito di arricchire la versione “nuda” della suite (base ritmica e linee base di tastiere e chitarra), costruita dai quattro e già presentata al pubblico in occasione di alcuni concerti.
Il risultato è eclatante: la suite, che si dipana attraverso straordinari “dialoghi” tra musica sinfonica (imponente è l’uso degli ottoni e del coro) e rock, prende il nome diAtom Heart Mother (dalla notizia di cronaca di una signora incinta tenuta in vita da uno stimolatore cardiaco atomico) e diventa la title-track del nuovo album, del quale andrà a occupare l’intera prima facciata.
I movimenti più suggestivi della suite sono “Breast Milky”, caratterizzato dal celeberrimo dialogo tra l’organo arpeggiato e il violoncello, sul quale si inserisce infine la chitarra di Gilmour, e “Funky Dung”, con basso e organo che lavorano in contrappunto e Gilmour alle prese con uno dei migliori soli chitarristici della sua carriera, prima dell’avvento del coro e dell’organo di Wright. La chiusura della suite è affidata a “Mind Your Throats Please” (caratteristica variazione floydiana di stampo rumoristico-psichedelico) e a “Remergence”, in cui riemergono i temi prima dell’overtoure e poi del duetto violoncello e organo. Il finale è imponente, con una chitarra sempre incisiva e con l’orchestra e i cori che scandiscono il crescendo musicale.
La seconda facciata si apre con la delicata “If ” di Waters (un semplice arpeggio di chitarra, la voce soffusa che sussurra parole intrise di malinconica poesia, una chitarra sognante nei brevi intermezzi musicali) e prosegue con “Summer ’68”, notevole pezzo di Wright (anche qui si nota l’uso dei fiati), l’onirica “Fat Old Sun” di Gilmour (canto caldo e suadente, chitarra sempre composta ma inesorabile) e si conclude con l’esperimento di “Alan’s Psychedelic Breakfast”, costituita da tre diversi momenti strumentali (il primo centrato sull’organo, il secondo sulle chitarre, il terzo più variegato e vicino allo stile dei primi Genesis) con la registrazione di una colazione all’inglese in sottofondo. Nata con l’ambizione di rappresentare la giornata di un uomo comune e ispirata a unroadie già immortalato nel retrocopertina di “Ummagumma”), la suite di Alan è a tutti gli effetti un esperimento poco riuscito.
Primo lavoro autoprodotto dai Pink Floyd e considerato il loro disco “progressive”, Atom Heart Mother va ricordato anche per la “storica” copertina, raffigurante una mucca al pascolo.
Il successo di una musica così complessa si traduce ben presto in un’effettiva difficoltà di messa in scena, che richiede al complesso l’elaborazione di nuovo materiale da suonare in tutti gli angoli del mondo. Nasce così Meddle (1971), un album in cui i Pink Floyd più che rinnegare l’amore verso le lunghe suite (in questo caso la seconda facciata è occupata dalla splendida “Echoes”), danno un taglio alle divagazioni sinfoniche e si orientano verso sonorità più rock, agevolmente riproponibili nei concerti. Memorabile è l’iniziale “One of These Days”, pezzo strumentale incentrato sul basso di Waters, amplificato sperimentalmente con un eco Binson, e impreziosito anche dal lungo assolo “slide” della chitarra di Gilmour. Da ricordare anche “Fearless”, brano più quieto, caratterizzato da un coro dei tifosi del Liverpool nel finale.
Nel maggio 1971 viene pubblicato anche Relics, raccolta contenente diversi singoli mai apparsi su Lp, risalenti al periodo-Barrett, ma anche alcune perle del “primo” Waters edite solo su 45 giri, come la splendida ballata acustica di “Julia Dream”.
Successivamente, i quattro decidono di registrare, con la direzione di Adrian Maben, un concerto senza pubblico tra le rovine di Pompei: il risultato è eccezionale, il complesso suona in maniera efficace vecchi e nuovi successi in uno scenario straordinariamente suggestivo. Il film Live At Pompei (1972) di Adrian Maben è una efficace e suggestiva testimonianza della straordinaria portata emotiva e visuale della musica dei Pink Floyd di questo periodo.
Nel ’72 si presenta ai Pink Floyd la possibilità di confrontarsi nuovamente con l’esperienza delle colone sonore: è ancora una volta Barbet Schroeder a commissionare la musica per il suo nuovo film, “La Vallée”. Stavolta l’operazione si rivela un fallimento soprattutto per colpa del film, giudicato dalla critica come opera sciatta e inconcludente.
L’album che ne deriva, Obscured By Clouds, smontato dai critici, va ricordato soprattutto per le atmosfere marcatamente rock, per la maturità dei testi di Waters e per alcuni pezzi orecchiabili come “Free Four” e “Childhood End”.
Nello stesso periodo, il complesso lavora allo sviluppo di una suite concettuale sull’alienazione umana, il cui titolo provvisorio è “Eclipsed – A Piece For Assorted Lunatics”. La suite viene “rodata” dal vivo per lungo tempo, prima di essere elaborata in studio con l’inserimento di effetti particolari, grazie all’aiuto del tecnico del suono Alan Parsons. Ne scaturisce uno dei grandi kolossal della band, The Dark Side Of The Moon.
Superbo saggio di produzione audio-fonica, forte di contenuti testuali ad effetto (con riferimenti alla natura effimera della vita, al denaro, all’incomunicabilità e alla follia) il disco presenta tuttavia alcuni passaggi a vuoto, a cominciare dall’insipida “Money” (con il celebre sassofono di Dick Parry), per poi passare attraverso i trucchi (talvolta ruffiani) di “Speak to Me” e “On the Run”, perfette comunque nel rendere lo stato di ansia del protagonista, riuscendo a fondere, tra rumori e soluzioni sonore d’avanguardia, momenti di alto contenuto sonico-spaziale, ponendo le coordinate su cui si poggia il pensiero pessimista di un Waters alquanto disorientato, autentico ambasciatore di quel tema dell’incomunicabilità di cui “The Dark Side” risulta un drammatico spaccato. Non mancano, però, momenti di intenso lirismo, come dimostra “Time”, trascinante nella sua felicissima fusione tra testo e musica, con un debordante assolo di Gilmour alla chitarra. La prima parte del disco si completa con una elegia alla pazzia, ma anche, allo stesso tempo, alla libertà dell’uomo, schiavo di una società che tende a opprimerlo: “The Great Gig in the Sky”, dominata dai vocalizzi di derivazione soul-gospel di Clare Torry, in grado di fondere fiammante liricità e drammaturgia quasi cinematografica. “Us and Them” vorrebbe rievocare “Breathe In the Air”, ma la melodia, sebbene pink-floydiana al 100%, risulta convincente solo se inserita nel contesto dell’album. Un discorso che vale un po’ per tutto “The Dark Side of the Moon”: ciò che rende immortale quest’opera è il suo inconsueto approccio con l’art-system dell’epoca, qui fotografato in tutte le sue direzioni possibili. Per il rock si trattò di un prodigioso balzo verso un’era futuristica prossima a venire, mentre per quel che concerneva il song-writing i Pink Floyd hanno certamente scritto pagine di più elevata caratura artistica.
Il risultato è comunque eclatante, davanti al gruppo si spalancano le porte del successo mondiale:The Dark Side Of The Moon rimane in classifica per lunghissimo tempo, divenendo uno dei maggiori successi commerciali di sempre. Tanto in Europa quanto in America, schiere di nuovi fan si raccolgono attorno al fenomeno Pink Floyd, lasciando anche una pesante incognita sul seguito da dare a un lavoro così fortunato. E’ da questo disco in poi che Waters (autore di tutti i testi) assume sempre di più i gradi di leader della formazione.
Per oltre un anno i quattro rimangono inattivi dal punto di vista compositivo, per poi ritrovarsi in studio nel ’74 con la sola certezza di “Shine on You Crazy Diamond”, anche questo un brano piuttosto lungo, formato dai contributi dei quattro musicisti e guidato dagli assoli alla chitarra di Gilmour.
In un primo momento si pensa di riservare la prima facciata alla suite e la seconda a due brani: “Raving and Drooling” e “You Gotta Be Crazy”. La lunga “gestazione” di Wish You Were Here suggerisce però ai Pink Floyd di intraprendere una strada diversa, trasferendo sul disco la sensazione di apatia e meccanicità che aleggiava su di loro: vengono scartati i due brani riservati alla seconda facciata, sostituti con nuove composizioni come la title-track (destinata a diventare una delle canzoni più famose della loro produzione), “Welcome To The Machine” e “Have A Cigar” (con alla voce Roy Harper), zeppe di accenni alla macchina tritatutto dello show-business. “Shine On You Crazy Diamond”, invece, viene divisa in due parti, che aprono e chiudono il disco. Ne viene fuori un concept album sulla purezza e l’innocenza ormai perdute, con riferimenti neanche troppo velati a Syd Barrett, che si dice si fosse intrufolato, per un’ultima volta, negli studi durante le registrazioni. Musicalmente parlando, l’album è una gradevole prova stilistica, anche se si nota, rispetto agli album precedenti, la mancanza di quegli spunti innovativi che avevano sempre caratterizzato la produzione del gruppo inglese.
Per rivedere i Pink Floyd in studio bisogna aspettare il 1977, anno in cui i quattro decidono di raccogliere in un disco il materiale scartato dall’album precedente. Il nuovo lavoro nasce così dall’adattamento musicale e testuale di vecchi pezzi scartati come “You Gotta Be Crazy” e “Raving and Drooling”, secondo un nuovo filo conduttore: il riferimento al mondo animale. I due pezzi diventano rispettivamente “Dogs” e “Sheep” e insieme alla nuova “Pigs (three different ones)” e alle brevi parentesi iniziale e finale di “Pigs On The Wing”, vanno a costituire Animals, un’invettiva contro alcune figure della società (con i testi di Waters “cattivi” come non mai), orwellianamente sostituite dalle specie animali. Dal punto di vista tecnico, degna di nota è la trascinante costruzione ritmica, con tutti gli strumenti sempre in perfetta armonia, quasi fusi tra di loro a generare un unico suono, senza mai ricorrere a virtuosismi fini a se stessi.
Dopo la pubblicazione di Animals, i Pink Floyd partono per un lungo e massacrante tour mondiale. Sarà in questa occasione che Waters, anche a causa di spiacevoli episodi, che lo vedranno protagonista perfino di screzi col pubblico, comincerà a sviluppare l’idea che porterà i quattro alla costruzione del loro ultimo capolavoro: The Wall.
L’album, ispirato a quella sorta di “muro” di incomunicabilità che si era venuto a creare tra il complesso e il pubblico (un muro che col passare del tempo si arricchirà nella testa di Waters di tanti mattoni fino a farlo diventare un emblema dell’alienazione e dell’estraniazione dal mondo a tutto raggio) è sviluppato su due dischi e abbraccia diverse tematiche come discriminazioni, istruzione, show-business, fascismo e implicazioni autobiografiche di Waters, sempre più “padre padrone” del gruppo (durante le registrazioni nascono forti contrasti con Gilmour e, al termine della gestazione dell’album, Wright viene allontanato). Per gli arrangiamenti la band fa nuovamente ricorso a effetti eclatanti e addirittura a parti orchestrali, grazie all’aiuto esterno di Michael Kamen. Pur vantando alcuni pezzi eccezionali come “Another Brick in the Wall, part 2”, “Hey You”, “Is There Anybody Out There?” e “Comfortably Numb” (con il memorabile assolo di chitarra di Gilmour), il disco è essenzialmente un’opera unica: nessun brano è slegato dal precedente e tutti sono funzionali allo svolgimento della storia che ha nella rockstar Pink (che talvolta ricorda la figura di Barrett, mentre in altri momenti è l’alter ego dello stesso Waters) il frustrato protagonista. “Another Brick in the Wall, part 2”, in particolare, si rivelerà uno dei più grandi hit della band: preannunciata dall’arrivo degli elicotteri, è una canzone di una semplicità disarmante, costruita su un solo accordo ma impreziosita dall’ennesimo solo di chitarra di Gilmour e da un coro dei bambini, composto da 23 ragazzi della Islington Green School di Londra, di età compresa fra i 13 e i 15 anni. Il celebre verso del ritornello (“non abbiamo bisogno di istruzione, non abbiamo bisogno di controllo del pensiero”) sarà utilizzato dai manifestanti neri in occasione dell’anniversario della sommossa di Soweto repressa nel sangue: il governo razzista del Sud Africa proibirà la diffusione del brano e ne ritirerà tutte le copie dai negozi. Pur permeato da una visione cupa e pessimistica della vita, il disco si conclude comunque con il “crollo” del muro e con il messaggio di speranza di “Outside the Wall”.
L’album sarà premiato dal successo di vendite (clamoroso per un’opera su doppia distanza) e si presterà a una difficile quanto magnifica rappresentazione dal vivo: gli spettacoli saranno pochissimi ma memorabili, con il muro costruito a poco a poco sul palco, enormi pupazzi gonfiabili e coinvolgenti proiezioni. Da The Wall sarà tratto anche il film omonimo, con la regia di Alan Parker e Bob Geldof nel ruolo del protagonista Pink.
Il complesso esce però dall’esperienza alquanto provato: i dissidi tra le due anime del gruppo (Waters e Gilmour) appaiono difficilmente sanabili e Wright, come detto, viene allontanato.
I quattro decidono comunque di tornare in studio per registrare un album che, negli intenti, dovrà raccogliere il materiale scartato dal precedente lavoro.
La guerra per le isole Falkland-Malvine, però, fa scattare una scintilla nella mente di Waters, che decide di comporre nuovo materiale con un comune denominatore nella mancata realizzazione del sogno di pace postbellico.
L’album che ne viene fuori, The Final Cut, è in pratica una creatura del solo Waters, con gli altri membri relegati al ruolo di musicisti (e spesso neanche a quello). Di tutti gli album dei Pink Floyd è il meno coinvolgente, anche se la bellezza di alcuni brani (su tutti “The Gunners Dream” e “The Post-War Dream”) rimane inattaccabile.
Purtroppo il titolo del disco si rivela molto presto profetico, costituendo l’atto finale di Waters come membro della band.
La volontà del bassista di sciogliere i Pink Floyd porterà a una lunga querelle con strascichi giudiziari per l’utilizzo di un marchio ormai sinonimo di best-seller, che vedrà Gilmour e Mason avere la meglio.
Il chitarrista, con l’aiuto di illustri musicisti e il modesto supporto di un Mason quantomeno svogliato, pubblicherà nel 1987 A Momentary Lapse Of Reason, mentre nel 1994, con il rientro a pieno titolo di Wright e Mason nelle vesti di compositori ed esecutori, uscirà The Division Bell.
I dischi, colmi di spunti tutt’altro che innovativi, seguiti dalle rispettive testimonianze live, Delicate Sound Of Thunder (1988) e Pulse (1995), se non altro ci consegnano dei musicisti tirati a lucido e sempre pronti a emozionare il pubblico, con concerti dagli apparati scenici mastodontici (da ricordare il famoso episodio di Venezia) e notevoli esecuzioni del glorioso repertorio.
Più recente è la pubblicazione di furbe operazioni commerciali come The Wall Live e un improbabile “Best of”, che se non altro hanno l’intento di attirare nuove schiere di appassionati verso il mito senza tempo dei Pink Floyd.
* Contributi di Sigfrido Menghini, Alan Tasselli e Vittorio Iacovella