Da paziente, da psicoanalista e da malata mentale mi sono convinta che tutti, non solo i tecnici e le famiglie, hanno qualcosa da dire sui malati mentali, meno loro stessi. Io sono una paziente che vuole parlare della malattia mentale, mia e degli altri con cui sono venuta a contatto, e questo è già un programma. Ne voglio inoltre parlare assumendo il ruolo, come del resto è stato nella realtà per oltre quarant’anni, di protagonista principale sia della malattia che della cura (io come gli altri). Riflettendo oggi, o meglio negli ultimi vent’anni, su questa mia duplice esperienza (malattia e cura), mi sono resa conto di essere stata io ad utilizzare quanto mi veniva dato dallo psichiatra e dallo psicoanalista (lo psicoanalista è uno psichiatra o psicologo che segue una particolare linea terapeutica iniziata da Freud), scegliendo ogni volta le pagliuzze necessarie a formare il mio proprio nido, proprio come gli uccellini che mettono insieme le cose più disparate organizzandole in un loro disegno dove mettersi comodi. Posso anche dire, per farmi capire meglio, che per poter modificare la mia mente ho dovuto mettere la mia identità come filtro degli stimoli esterni ed interni, una figura, diciamo, che dovevo ritrovare ogni volta quando si perdeva, magari tra una seduta e l’altra. Come credo avvenga per tutti i malati che si curano di una qualche malattia, non ho mai rinunciato alla mia testa, o meglio all’uso della mia testa per discriminare cosa mi serviva e cosa no: e questo è avvenuto anche nei momenti di crisi quando abbiamo così bisogno di un altro, nella fragilità estrema di quell immenso dolore che è per esempio vivere in delirio, un bisogno così forte che dobbiamo lottare strenuamente contro la spinta a farci “pacchetto” (a rinunciare a pensare) e consegnarci mani e piedi legati all’altro (un tecnico, un amico, un famigliare o addirittura chiunque, nei casi estremi) perché usi la sua testa anche per noi. Naturalmente ho vissuto anche momenti di “abbandono” all’altro, ma sono stati pochi e di breve durata; mi sono serviti per tornare sui miei passi e dirmi: “per quanto male funzioni la tua testa, per te funziona sempre meglio di quella di un altro”. E di questa scelta, anche quando tormentata, ho avuto solo conferme. Può sembrare ovvio quello che dico, ma nel caso della malattia mentale posso testimoniare che non lo è affatto. Forse non è così ovvio per qualunque malattia e le ragioni sono tante (alcune le vedremo). Tutto intorno al paziente, tecnici compresi, sembra che sussurrino al malato mentale: “affidati a noi, adesso non puoi sapere cosa ti serve, sei come incosciente, sei fuori di testa, hai perso il senso della realtà, noi siamo gli esperti, siamo i famigliari che pensano al tuo bene come in questo momento tu non puoi più fare, siamo gli amici che ti conoscono da bambino e, non ottenebrati dalla malattia, vedono meglio di te e consigliarti”. E tutto questo, nel migliore dei casi (ci sono anche le violenze) viene dato “con molto amore”. Ma con grande ignoranza: persino i tecnici “con studio ed esperienza”, lo voglio dire forte, non “sanno” della tua specifica mente, del tuo assolutamente unico cervello e soprattutto non possono curarti se non passando “attraverso di te”, attraverso la tua capacità di pensare e discriminare anche quando sei immobilizzato dalla depressione oppure deliri un mondo dove ti sarebbe più facile vivere. Tutte le volte che ascoltavo queste litanie, pacate e lente, mi sorgeva alla mente la scena del film di Ejzenstejn “Ivan il Terribile” mentre si svolge il funerale della moglie adorata: si sentono le nenie dei sacerdoti che chiedono pace e lo invitano a cedere ai boiardi che difendevano se stessi contro la centralizzazione di ogni potere, religioso compreso, voluta dal principe Ivan IV. E lui, lo sguardo sulla moglie morta, la dolcezza dei canti, sente che sta per abbandonarsi e rinunciare a fare di tutta la Russia un unico Stato, ma improvvisamente si rivolta contro questa sua debolezza: scaglia a terra il lungo bastone simbolo del suo imperio e grida a tutti in modo orribile di andare fuori.
Tornando al perché di questo blog, nonostante la mia formazione in psicologia, voglio comunicarvi quello che ho imparato della malattia mentale guardandola esclusivamente dal punto di vista del paziente: sono convinta di fornire in questo modo dei dati che i tecnici e i famigliari non possono avere perché loro, la malattia, la conoscono ma non l’hanno vissuta. Negli anni ho riconosciuto, infatti, anche se con difficoltà dovute al nostro tipo di cultura, che il vissuto in prima persona, disprezzato in quanto “non conoscitivo” e “troppo particolare”, ci porta delle novità anche teoriche. Come dice Saviano “tante esperienze private messe tutte assieme diventano pubbliche “. Per esempio, se mi domandano cosa è un delirio, non ho dubbi nel rispondere che è una risorsa della nostra mente, come la febbre in altri disturbi, per aiutarci a sopportare situazioni di realtà che, per noi, sopportabili non sono. Questa ipotesi non posso dire di averla vissuta, non si può vivere un’ipotesi, ma è nata da un lungo e lento sedimentarsi di vissuti. E’ qualcosa di più di un vissuto e non è una vera e propria teoria, ma si ha il piacere di comunicarla ad altri nella speranza di una verifica in un senso o nell’altro. In un paziente, un’ipotesi come questa nasce quando da tante esperienze nostre e di altri, ci interroghiamo sul senso e sulla funzione di quella realtà “irreale” (il delirio) che percepiamo a tutti gli effetti “reale”, ma che ci porta, invece, in un mondo diverso “dal mondo comune”. Tanto contrastante con il nostro da essere sconvolgente per noi e per i nostri vicini: è così forte l’abisso di panico che procura prima di tutto a noi malati e poi all’ambiente, che ci sentiamo tramortire. Un’altra ragione di questo scritto, come ho già detto, è cercare dei collaboratori. Ho iniziato, all’ inizio degli anni Novanta, a scrivere un libro sulla mia esperienza. L’ho portato a leggere ad una psicoanalista: ho pagato le ore di lettura del libro come fossero sedute con un paziente: e questa cosa che mi è sembrata ingiusta: un libro sulla malattia e un malato vivo, in carne e ossa, con tutte le reazioni che gli competono, non richiedono lo stesso impegno. Aggiungo minuscola nota laterale: voglio accennare al tema caldo del prezzo delle psicoterapie, specie quella analitica. Ho amato la psicoanalisi, l’ho amata anche tanto, e la amo tuttora, ma mi sono rivoltata a tante sue regole come per esempio chiedere un prezzo tale che la destina a rivolgersi ad una ristretta èlite certamente economica, ma spesso culturale per il modo astruso di esprimersi del terapeuta.
Questa signora, la psicoanalista che mi ha letto il libro, ha dato alla fine questo responso: “Non si capisce niente!”
Pazientemente l’ho ripreso in mano per riscriverlo e ancora lo sto riscrivendo, ma adesso mi sono detta: “Perché non mettere in comune questa prima stesura, lo riscriverò con la partecipazione di altri, così magari sarà più comprensibile”. La vostra partecipazione attiva è assolutamente necessaria.
Ma perché mai mi sono messa, più di vent’anni fa, a scrivere un libro che non è mai finito e che, oltretutto, lo continuo a scrivere, correggere, riscrivere e risceverare ad ogni nuova lettura? Mio cognato, marito di mia sorella, mi ha soprannominato “Penelope”! Anche qui i motivi sono tanti: ne dico uno. Nei testi sul delirio cui ho avuto accesso, pochi certamente, non ho trovato una risposta che potesse corrispondere a quanto avevo visto in me, e in altri, durante una crisi. La teoria non batteva con i fatti, se posso dire così, qualcosa sempre scricchiolava. Più di tutto c’era una distanza troppo grande tra il pensiero dei tecnici e il vissuto, mio e di altri: mancavano dei gradini tra il concreto vivente dei pazienti e l’orizzonte che il tecnico ci prospettava: per dirla con precisione, mancava “una teorizzazione intermedia” tra la grande generalità e il concreto e piccolo vissuto nostro. Mi sono convinta che sono proprio queste teorizzazioni intermedie e, contemporaneamente, queste “scorciatoie” pratiche che un paziente può offrire sia ad altri psicotici come lui, sia a quei professionisti che accettano di ascoltarlo (se non ritengono di “scendere troppo in basso”…il paziente è tuttora, e da sempre, “un minus quam”): lo scopo sarebbe migliorare, soprattutto in applicabilità, la teoria che, a questo punto, con molte collaborazioni di malati e di sani “saggi”, diventerebbe “la teoria di tutti i protagonisti di questo specifico ambito”. A questo mondo da riformare, a mio parere, appartengono di diritto i sani, anche se spesso non lo sanno. In Brasile, paese dove ho felicemente abitato dieci anni, un proverbio dice: “De poeta, de médico e de louco, todo mundo tem un poco” (“louco” è “pazzo”), e questo per non risalire al più famoso Terenzio (II sec a. C.) «Homo sum: humani nihil a me alienum puto» ossia, a mio modo: “Niente di quello che appartiene all’umano mi può essere estraneo perché sono un uomo”.
Non è mia intenzione polemizzare con i professionisti (ho sempre avuto dei professionisti eccellenti e so benissimo che non sarei potuta guarire senza di loro…anzi, senza di loro sarei una persona diversa, peggiore… ma questa, come diceva il baffone nel famoso film, è un’altra storia…