Lisa Germano (Mishawaka, Indiana, 27 giugno 1958) è una cantautrice e polistrumentista statunitense.
Cantautrice problematica e tormentata,[1] è molto stimata per i suoi testi intimisti e autobiografici.[2] Musicista di formazione classica, è specializzata nel suonare archi, in particolare il violino, il cui studio ha praticato fin da bambina.
Durante la sua carriera, ha collaborato con numerosi artisti, come gli Eels, John Mellencamp, i Simple Minds, David Bowie, Sheryl Crow, Iggy Pop e i Crowded House.
https://www.youtube.com/watch?v=OfqPdNuV0PE&list=PLpwp_vsPGo8pdD0nbkun5GklyakVIyL_A&index=1
The Dresses Song
Lisa Germano
You make we want to wear dresses
You look at me so fragile
It feels so good in there
Much much safer in your castle
Mine got lost somewhere
You make we want to wear dresses
You make we want to wear dresses
You look at me so fragile
It feels so good like that
You look at me so fragile
Wide wide open spaces
You make me want to wear dresses
Wide wide open spaces
You make me want to wear dresses
You look at me so fragile
Wide wide open spaces
Take me to your castle
It feels so good in there
Much much safer in your castle
Mine got lost somewhere
You make me want to wear dresses
You make me want to wear dresses
Its much much safer in my dresses
You make me want to wear dresses
ONDA ROCK.IT
https://www.ondarock.it/songwriter/lisagermano.htm
Lisa Germano
La dolce ossessione
di Claudio Fabretti
Lisa Germano appartiene alla razza eletta delle fuoriclasse. E relegarla solo al rango di cantautrice può apparire persino limitativo, trovandoci al cospetto di una musicista-compositrice dal pedigree invidiabile. I suoi album sono piccole miniature sonore che si svelano a poco a poco, quasi fossero rivestite di sottili strati da decifrare. Le sue storie, all’apparenza quiete e minimali, nascondono sempre una tensione drammatica, un crescendo agghiacciante di angosce degni dei cantautori più noir di sempre. Musicalmente, il suo canzoniere riescea coniugare folk tradizionale, alternative rock, blues nero e classica. ll suo è il volto più oscuro di quel cantautorato “intimista” tipicamente femminile che, da Joni Mitchell in poi, ha saputo donare al rock una sensibilità più profonda.
Come per molte altre cantautrici degli ultimi anni (Tori Amos, Sinéad O’Connor, PJ Harvey), anche per la forbita musicista dell’Indiana il confine tra vita e arte è tenue: “Mi piace mettere tutta me stessa nelle canzoni, esprimere sensazioni diverse, anche quelle più spaventose – racconta – Non mi sento vulnerabile per questo, anzi, può essere una sorta di catarsi. Ma avviene tutto in modo molto personale e spontaneo, non c’è nulla di costruito”.
Lisa Germano è un’antidiva nata. Forse per la sua riservatezza, forse per la natura introversa e intricata delle sue canzoni, sempre lontane da facili appeal commerciali (ha rotto con una major, la Capitol, per mantenere la sua libertà artistica con l’indipendente 4AD prima e con la sua etichetta Ineffable poi, per approdare infine alla YoungGod). Ma la musica è parte integrante del suo patrimonio genetico. Figlia di musicisti classici, a sette anni sa già suonare il violino. Quindi, si specializza negli strumenti a corda, prediligendo i generi country e folk. “Intorno ai 18 anni mi sono stancata della musica classica – racconta -. Ma avevo paura di diventare una cantante, non mi piaceva la mia voce, non mi piacevo… Così mi sono sposata a 20 anni. Il matrimonio è durato per otto anni: gli anni peggiori della mia vita perché non potevo suonare la mia musica”. E’ finita con un divorzio: “I problemi sono sorti quando mi sono liberata delle mie insicurezze e ho cominciato ad assumere un ruolo dominante. E’ finita, ma senza rancore: siamo rimasti molto amici”.
Dopo alcune esperienze in gruppi a carattere tradizionale, Lisa viene notata da John Mellencamp, che la vuole al suo fianco in tour, come violinista. Seguono altre esibizioni come supporter dei concerti di Bob Seger e dei Simple Minds.
Nel 1991, a 33 anni, arriva il debutto come solista con On The Way Down From Moon Palace. Un album delicato e sperimentale, di stampo prevalentemente folk, ma con sprazzi di new age, musica classica e country. Lisa Germano suona tutti gli strumenti (violino, chitarra, mandolino, piano, fisarmonica), dando vita a mini-concerti di accordi preziosi e contrasti sfumati, in un labirinto di suoni e visioni surreali. La voce della cantautrice dell’Indiana non graffia come quella delle rocker e non ha l’impronta nasale delle interpreti country. E’ un bisbiglio tenero e vellutato, accompagnato da arrangiamenti scarni e sfocati. Una voce che dà il meglio di sé in ritornelli-filastrocca come “Cry Baby”, una delle sue canzoni più intense di sempre, o in blues spettrali come “Blue Monday”, mentre “Dark Irie” è una melodia di razza, degna della musica barocca.
Moon Palace è un canzoniere sul dramma della condizione femminile, all’insegna dell’esistenzialismo più cupo. Un’opera tanto scarna quanto complessa, che riesce a coniugare con eleganza folk tradizionale, blues nero e musica classica.
I “soliloqui” psicanalitici di Germano proseguono con Happiness (1993), che sfoggia persino una sorta di inno grunge come “Everyone’s Victim” e un pezzo di rock duro come “Energy”. Domina un clima di tragedia imminente, che si rifà alle litanie di Nico e alle ballate più disperate di Lou Reed, e culmina nel canto solenne di “Sycophant”. Anche l’ultimo spiraglio di luce scompare con “The Darkest Night Of All”, titolo che in sé spiega tutto.
Lisa Germano è in costante lotta con sé stessa, con le sue angosce infantili, le sue fobie e i suoi drammi femminili. Ma tenta di esorcizzare tutto nei suoi lugubri soliloqui.
Il culmine di questo percorso di autoanalisi è Geek The Girl, uno dei grandi capolavori degli anni Novanta. Un disco che attanaglia a poco a poco l’ascoltatore in un clima di suspence sfibrante. Registrato interamente in casa, prodotto da Malcom Burn e dalla stessa Germano (che suona più strumenti: chitarra, tastiere, violino), è un concept-album sull’infelicità pervaso da un cupo esistenzialismo. Un calvario di donna ritratto in piccoli pannelli sonori, che abbracciano temi quali la solitudine, l’alienazione, l’incapacità di rapportarsi con il prossimo, i sentimenti feriti, la violenza sessuale. La tensione non deflagra mai, ma si insinua progressivamente in una sequenza di ballate crepuscolari, costruite sull’uso di molteplici strumenti e su continue variazioni sonore che si rivelano funzionali alla drammatizzazione dell’impianto narrativo. La stessa Germano alterna registri diversi, quasi a voler interpretare i vari personaggi che affollano i suoi incubi. L’effetto è suggestivamente “teatrale”, ma sempre contenuto all’interno di rigidi binari minimalisti.
Gli intermezzi di tarantella italiana che suddividono il disco in tre parti conferiscono un effetto straniante: il ritmo festoso immette una forzata allegria laddove c’è solo dramma e dolore, ma, al contempo, accentua la dimensione “alienata” di questa recita, come se i protagonisti, in fondo, non fossero altro che burattini manovrati da un destino oscuro e ineluttabile. Il tema dell’infanzia tormentata ricorre, tra giostre psichedeliche, eteree ninnananne ed emozionanti progressioni rock, con il suo violino spettrale in sottofondo a infondere sempre una vena d’inquietudine.
Le canzoni di Geek The Girl sono brividi. Brividi che terrorizzano, come la confessione di impotenza di “My Secret Reason” o la ninnananna lievemente dissonante di “Trouble”, o le turbe sessuali della title track. Se “Cry Wolf” è un’autoaccusa dolente (“You should have known better/ It’s all your fault”), “Psychopath” è già il baratro, l’abisso: il dramma di una donna violentata in casa dal compagno. Qui davvero siamo nei territori funerei di Nico: la voce di Lisa si fa infantile per intonare la più agghiacciante delle ninnananne (“…A psychopath, a psychopath/ he says he loves me And I’m alone/ and I am cold and paralyzed, I can’t move…”), mentre lo strimpellio surreale di una chitarra e il pianto di una donna (tratto da una vera telefonata a un numero d’emergenza) portano la tensione allo spasimo. Una storia a sfondo autobiografico: “Un uomo mi ha perseguitato per un anno – racconta la cantautrice americana – Mi scriveva lettere, lettere veramente terrificanti, dicendomi che Dio gli aveva detto che eravamo fatti per stare insieme. Mi spaventa che Dio possa dire alla gente cose di questo tipo”.
Qualcuno ha voluto leggere Geek The Girl come una denuncia contro gli uomini: “Niente di più falso – ribatte – Poteva chiamarsi “Geek the boy” e non avrebbe fatto alcuna differenza”. E non si tratta neanche di una ribellione a una religiosità imposta, come nel caso di Tori Amos: “Sono credente, ma non in senso tradizionale – spiega la cantautrice dell’Indiana – Credo che Dio sia in ognuno di noi, nel nostro spirito. Ma non dovrebbe essere Dio a decidere ciò che è giusto o sbagliato, dovrebbe toccare ad ognuno di noi farlo”.
Lisa Germano non rimuove i suoi fantasmi, al contrario: li rende reali e li racconta in maniera spersonalizzata, nel disperato (e vano) tentativo di esorcizzarli. Il sinistro motivo di clavicembalo di “Sexy Little Girl Princess” non attenua certo il pathos, mentre il dialogo febbrile di “Cancer Of Everything”, affogato in un mare di archi, sfocia nella constatazione dell’angoscia come sottofondo esistenziale inevitabile. Non resta, allora, che rifugiarsi in un universo immaginario di amore e colori (la trasognata “Of Love and Colors”) o di stelle (la tenera melodia di “Stars”). Il calvario di Lisa la Triste si conclude così con un commovente anelito onirico, che apre il cuore.
Il quarto album, Excerpts From A Love Circus, riprende il tema dell’infanzia tormentata, tra tessiture psichedeliche, tenere ninnananne ed emozionanti blues, con il suo violino spettrale in sottofondo, a infondere una vena d’inquietudine. Il suono si fa più etereo, in linea con la tradizione 4AD. Svettano tracce come “Baby On The Plane”, quasi straniante nel suo intrecciare violini e tastiere in un clima solo apparentemente festoso, scandito dai colpi della grancassa, o il sussurro sensualissimo di “Bruises”, mentre “Messages From Sophia” vede Germano quasi nei panni di novella chanteuse francese, sulle note di una spettrale fisarmonica. Le aperture pop di “Small Heads” svelano una versatilità senza pari oltre a un testo che ancora una volta non lascia scampo.
Sul successivo Slush, invece, la sezione ritmica di John Convertino e Joey Burns (i Calexico) fornisce il controcanto e l’accompagnamento, ma il risultato non si rivela particolarmente brillante. Il disco serve semmai a confermare il talento poliedrico di Germano, che riesce a essere a suo agio anche nei panni di una riot-girl capace di sfoderare un garage-rock purissimo come “Tom Dick & Harry”.
In Slide (1998) la cantautrice dell’Indiana ritorna allora alla sua forma consueta, tra la scarna severità di “Guillotine”, la filastrocca appena sporcata da qualche dissonanza di “Electrified” e la sommessa melodia di “If I think of love”.
Con Lullaby For A Liquid Pig (2003), Lisa Germano aggiunge un altro tassello importante alla sua carriera, tra sogni inquieti, fragili ballate e atmosfere tenebrose. I suoni compaiono e scompaiono, sempre solo di passaggio come nei film piu’ deliranti di David Lynch. Nulla e’ normale nella notte che questo disco va a raccontare. Non e’ normale la steel spensierata di “It’s A Party Time”, che sfuma nel caos. Non e’ normale una ballata solare come “Pearls”, che vede entrare ed uscire una orchestra e finisce sfocata come attraverso un vetro opaco. Non e’ normale la cantilena chitarristica di “Paper Doll” che si dipana sospesa in un silenzio denso di rumori e disturbi e si ferma sul piu’ bello, come un sogno da cui ci si risveglia all’improvviso. “Liquid Pig” e’ un gioiello di produzione dove la voce distorta avanza marziale tra le nebbie di una atmosfera spettrale, come i Black Tape For A Blue Girl remixati da Aphex Twin e con Nico alla voce. Suoni da incubo avvolgono anche “All The Pretty Lies”, percorsa da una basso opprimente, come dei Cocteau Twins fatti girare al rallentatore.
Sono un puro brivido i plettri di “Lullaby For A Liquid Pig”. Sono piu’ prossimi alla musica da camera che al rock brani come “Candy”, o “From A Shell”, qualcosa come una Joni Mitchell con un quartetto d’archi. “To Dream”, che chiude il disco su un “away” sussurrato e inghiottito dal mixer.
Accasatasi alla Young God Records della leggenda indie Michael Gira (già forte dei vari Devendra Banhart, Akron Family, Mi and L’Au & C.), Lisa Germano fa uscire In The Maybe World (2006), che rinnova l’incanto di un suono ormai “classico” eppure mai scontato o manieristico. Dodici canzoni brevi per un delirio onirico narrato sottovoce, con arrangiamenti in sordina, minimali ma eclettici, grazie a continui innesti e variazioni inaspettate. Il piano pennella le linee melodiche, puntellato da qualche sparuta frase di chitarra, dal basso di Sebastian Steinberg e dall’organo a pompa di Patrick Warren. I sibili spettrali del violino contrappuntano e, con violoncello e xilofono, tessono una tela sottilmente straniante. Germano suona quasi tutto, canta e bisbiglia fin dentro l’orecchio dell’ascoltatore la sua filastrocca di eterna bambina, persa nel labirinto delle sue fobie.
Rispetto ai paesaggi musicali alieni del precedente Lullaby For A Liquid Pig, il songwriting ha conquistato centralità nell’approccio compositivo relegando sullo sfondo l’elemento atmosferico. Melodie e ritornelli in evidenza, dunque, ma non manca la consueta capacità di stupire con un solo tintinnio, un tremore, un accenno di distorsione. Ed è magia fin dalla ninnananna iniziale di “The Day”, quasi una parabola del ciclo della vita condensato in un giorno solo. L’acquisita coscienza della bellezza della vita e dell’accettazione della morte donano un barlume di serenità alla Lisa disperata di Geek The Girl. Ma già dalla seconda traccia, “Too Much Space”, il suono si gonfia di tristezza e di rimpianto: un filo di voce ricama la magnifica melodia su soffici frasi di piano, con il violino a gemere nella penombra. Da brividi.
Tra moderno soul e fantasie dreamy, si avvicendano elegie timidissime (“Moon In Hell”, “After Monday”), sospiri mortiferi (“Into Oblivion”), carillon fatati (“Golden Cities”, “A Seed”), piece para-ambientali (la title track, per campanelli, chitarra acustica e flebili percussioni elettroniche). La musicista rubata alla Classica cesella invece la sonata di “In The Land Of Faeries”, con il piano a riverberare ossessivo nel vuoto pneumatico e un canto mai così etereo. Quasi una versione da camera dei Cocteau Twins. Quando il piano esce di scena, c’è spazio anche per acquerelli folk (“Wire”) o letargiche ballate psych di matrice Mazzy Star (“Red Thread”, con il suo ritornello spiazzante “Go to hell/ Fuck you/ I love you”). “Except For The Ghosts” è invece un omaggio a Jeff Buckley.
In The Maybe World è un album sfuggente, solo apparentemente monocromo. Le pause sono rare, le piccole scoperte, invece, lo rendono più seducente a ogni ascolto. Una music-box da scartare con cura, assolutamente vietata ad ascoltatori distratti o frettolosi. Lisa Germano ha ancora tanto da dire e da insegnare. Nel “mondo del forse”, è questa l’unica certezza.
Con Magic Neighbor (2009), però, la qualità si abbassa: buona parte delle canzoni sembrano scritte con un afflato pseudo-pedagogico che mal si sposa col suo tipico dissidio interiore, e si privano di direzione. “To The Mighty One” è spartita tra un vaghissimo tributo alla tarda Bozulich solista e un bolero sovraccarico; “Simple”, guidata dall’acustica, si rifugia nelle sue solite giostrine da camera; la ninnananna di “The Prince Of Plati” fa il verso alla Rickie Lee Jones più rabbuiata. Il grazioso esperimento di “Suli-Mon”, con passo d’incantatrice di serpenti e voci sdoppiate di sirena, è fine a sé stesso. “Painting The Doors” annaspa in suoni ad effetto senza una melodia ficcante.
In ogni caso, la title track e, soprattutto, “Snow” ripresentano, sfiorandola appena, la meravigliosa inquietudine d’un tempo.
Resta il binomio Germano-strumento (pianoforte, su tutti, o acustica) al centro del suo mondo, quel big big world cui usava anelare con tono di bimba commossa e commovente. E’ forse cresciuta, anche se non del tutto consapevole, e la sua musica fa ancora una volta da veicolo personale.
Passano così altri quattro anni, affinché la cantautrice torni nuovamente con un nuovo lavoro: No Elephants, che la vede passare dalla Young God alla Badman di Dylan Magierek, è un disco, racchiuso da una copertina angosciante e criptica, che la vede superare l’appannamento dell’ultima prova a favore di un ritrovato slancio lirico. Un disco in cui le parole tornano ad essere assolute protagoniste, e dalle quale traspare una fortissima rabbia, non corrisposta dalla dimensione prettamente musicale. Di fatti, già l’iniziale “Ruminants” svela questa dicotomia: field recordings di uccelli, un lievissimo accompagnamento di piano, qualche pulviscolo d’elettronica, e quella voce così fragile, a dispensare il proprio fascino con grazia discreta.
Nell’album infatti, la sinergia di significato e significante poggia su un aspro contrasto, che pur nella comunanza d’intenti ne differenzia totalmente la foggia espressiva. Così, a contraltare di una musica solo apparentemente priva di nerbo (ma che in realtà svela tutta una serie di preziosi accorgimenti e variazioni armoniche dal grande fascino) arriva un carico testuale che porta in sé considerazioni amare sul presente e su un presumibile futuro dell’umanità, non proprio il più roseo tra i tanti ipotizzabili.
Lisa distoglie lo sguardo da sé stessa e dai suoi affetti, rivolgendo il proprio interesse al mondo; i vari inserti di registrazioni di versi di animali, sulla base del messaggio che l’artista lancia, paiono come tanti disperati messaggi d’allarme, tanti inviti a prendersi un po’ di tempo per ascoltare le esigenze del nostro pianeta e provare a ripristinare gli equilibri spezzati. Tra il belare di un gregge in lontananza nella sfumata ballata pianistica “…And So On”, il ronzare di uno sciame d’api a giocare quasi di contrappunto rispetto al giro espanso di chitarra spagnola e interferenze di cellulare (velenosa allusione a come l’intero processo di impollinazione delle api venga scombussolato dalle radiazioni emesse dai ripetitori) in “Dance Of The Bees”, e quel persistente cinguettare di uccelli che ci scorta fino al concludersi di “Strange Bird” (per l’appunto) pare che l’intero regno animale abbia voluto unirsi in coro e ammonire l’essere umano da compiere un passo che possa rivelarsi fatale.
In fondo al disco però, trapela una sensazione di speranza, quasi come se questo No Elephants volesse essere più uno scongiuro, affinché la brama dei prodotti di Madre Natura (come vuole sottolineare il posato crescendo per archi e pianoforte di “Diamonds”) e quella “diabolica apatia” (descritta in quello che probabilmente è il brano capolavoro dell’intera fatica, conteso tra vaghi sentori doomy e avventurosi squarci d’elettronica) non finisca seriamente per far smettere di lottare per un domani diverso, possibilmente migliore. Ad ogni modo, è tangibile la dimostrazione che anche con questo lavoro Lisa Germano sia, con oltre vent’anni di onoratissima carriera alle spalle, nella condizione di poter lanciare sfide, a sé stessa e a tutti gli altri.
Contributi di Lorenzo Casaccia (“Lullaby For A Liquid Pig”), Michele Saran (“Magic Neighbor”), Vassilios Karagiannis (“No Elephants”)
On The Way Down From Moon Palace (Koch, 1991) |
8 |
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Happiness (4AD, 1993) |
7 |
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Geek The Girl (4AD, 1994) |
9 |
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Excerpts From A Love Circus (4AD, 1996) |
7 |
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Slush (4AD, 1998) |
6 |
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Slide (4AD, 1998) |
7,5 |
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Lullaby For A Liquid Pig (Ineffable/I Music, 2003) |
6,5 |
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In The Maybe World (Young God, 2006) |
7,5 |
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Magic Neighbor (Young God, 2009) | 5,5 | |
No Elephants (Badman, 2013) | 7 |
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